Fa ancora discutere la sentenza (n. 1348 del 2013) con cui il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia (Sez. III) ha annullato, il 23 maggio scorso, la delibera del Senato accademico del Politecnico di Milano, a mezzo della quale si era stabilita, a decorrere dall’anno 2014, l’attivazione “esclusivamente in inglese” delle lauree magistrali e dei dottorati di ricerca.
L’esito del giudizio – che ora si trova in grado d’appello, dinanzi al Consiglio di Stato, e che quindi non può dirsi definitivo – ha suscitato moltissime reazioni, della più varia natura. Alcune sono state apertamente favorevoli, e hanno evidenziato la giusta difesa della lingua italiana come fondamentale veicolo del patrimonio culturale nazionale. Altre sono state scettiche, e non sono mancati coloro che hanno enfatizzato tutti i pericoli di un atteggiamento pigro e municipale, capace soltanto di accreditare visioni eccessivamente ristrette della ricerca e della cultura: il rischio che è stato paventato, e che non è certo ignoto, è quello di aggravare il gap che relega ancora verso il basso il ranking medio dell’accademia italiana e dei suoi pur brillanti risultati, ponendo così anche la maggioranza degli studenti, e degli studiosi, che si formano nel nostro Paese in una condizione scarsamente competitiva.
Nel merito, si può subito osservare che, come sempre accade nel nostro dibattito pubblico, un tema davvero importante – l’italiano e il suo ruolo nel contesto di un’educazione che è sempre più proiettata oltre i confini – viene stracciato nella contesa di fazioni che, alla fine, riescono solo nell’obiettivo di anteporre ragioni astratte ad emergenze molto più concrete. Sicché sono pienamente condivisibili le opinioni di chi, come Claudio Giunta (Domenicale del Sole 24 ore, 14 luglio 2013), ha invitato tutti i protagonisti di questa surreale baruffa ad un bagno di più sano realismo.
Del resto, è proprio ad un atteggiamento serenamente consapevole che la vicenda processuale del Politecnico dovrebbe stimolarci. Perché le pronunce vanno lette integralmente, tanto più nel caso di specie, nel quale il giudice amministrativo non ha dato alcun credito ad interpretazioni totalmente unilaterali, ma ha cercato, anzi, di proporre una ricostruzione il più possibile equilibrata. È a questo equilibrio, allora, che occorre guardare per comporre le ampie, e forse poco utili, polemiche di questo periodo.
Il provvedimento del Politecnico era stato impugnato da un nutrito numero di docenti dello stesso Ateneo, che, oltre ad aver prospettato la violazione della libertà di insegnamento e l’effetto discriminante a carico degli studenti, avevano anche invocato la necessità di rispettare la normativa vigente. In particolare, era venuto in gioco l’art. 271 del regio decreto n. 1592 del 1933, nella parte in cui stabilisce tuttora che la lingua italiana è la lingua ufficiale dell’insegnamento e degli esami in tutti gli stabilimenti universitari.
Per il Politecnico, però, tale disposizione doveva intendersi implicitamente superata dall’art. 2, comma 2, lett. l), della legge n. 240 del 2010 (la cd. “riforma Gelmini”), laddove si prevede che le università statali modifichino i propri statuti anche nel senso di rafforzare l’internazionalizzazione “attraverso una maggiore mobilità dei docenti e degli studenti, programmi integrati di studio, iniziative di cooperazione interuniversitaria per attività di studio e di ricerca e l’attivazione, nell’ambito delle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente, di insegnamenti, di corsi di studio e di forme di selezione svolti in lingua straniera”.
Di fronte a queste opposte letture, il giudice non ha seguito automaticamente la tesi dei ricorrenti. Pur ribadendo la priorità dell’uso della lingua italiana – non solo mediante il riferimento al citato art. 271, ma anche in un articolato ragionamento di matrice costituzionale – il Tar Lombardia ha riconosciuto che le innovazioni apportate dalle recenti evoluzioni dell’ordinamento universitario consentono ed incentivano l’istituzione di corsi e di insegnamenti in lingua straniera, e che, pertanto, la questione non è riassumibile nell’opposizione inglese sì, inglese no. Si tratta, semplicemente, di garantire, in un rapporto di “reciproca integrazione” tra i due riferimenti normativi ora ricordati, che l’uso della lingua italiana non sia assente o del tutto secondario: non vi è alcun ostacolo, specialmente per talune materie che più vi si prestino, all’accostamento di lingue straniere all’idioma nazionale.
La decisione del Politecnico, in definitiva, è stata ritenuta illegittima non perché non si possa utilizzare negli insegnamenti e nei corsi una lingua diversa dall’italiano, bensì per la modalità eccessiva che a tale opzione si è voluto dare: “Si tratta di una soluzione – si legge nella motivazione del Tar – che marginalizza l’uso dell’italiano, perché la lingua straniera non si pone sullo stesso piano di quella italiana, affiancandola, ma la sostituisce radicalmente”. La conclusione di questa storia non si risolve in una battuta d’arresto, perché il criterio dell’internazionalizzazione è parte oramai irrinunciabile della formazione universitaria. Tuttavia occorre buon senso, e anziché correre a briglia sciolta è comunque preferibile procedere in modo più controllato: adelande, presto, con juicio, direbbe il manzoniano don Antonio Ferrer, e noi stiamo senz’altro dalla sua parte.
Come si vede, dunque, le trincee che sono state presto solcate, rispettivamente, dai difensori dell’italianità e dai loro critici non hanno fondamento. Le istanze di cui entrambi gli schieramenti intendono farsi portavoce sono destinate a trovare ragionevole espressione e composizione all’interno dei piani strategici di sviluppo di ogni ateneo.
Il risultato è che l’autonomia delle università ne risulta vieppiù valorizzata e responsabilizzata, soprattutto in ordine alla scelta sulle discipline e sui percorsi professionalizzanti o di ricerca che si possano di volta in volta immaginare: sia per gli scenari più tipicamente territoriali e italiani, sia per le prospettive viceversa internazionali o globali dell’offerta formativa. E chissà che, accanto a corsi in lingua inglese, francese, spagnola o tedesca, spuntino presto corsi in lingua araba o cinese, e che, nei normali insegnamenti in lingua italiana, i docenti siano più attenti all’uso fin troppo disinvolto che i nostri studenti fanno della tanto gloriosa lingua madre.