L’ampio dibattito accesosi all’indomani della sentenza del Consiglio di Stato (Cds) n. 3747 dell’11 luglio 2013 si radica nel fatto che per la prima volta nella copiosissima giurisprudenza amministrativa sui concorsi pubblici, il livello di tutela dei principi costituzionali che reggono gli accessi ai ruoli della Pubblica amministrazione viene anticipato a chiare note al livello del pericolo astratto e presunto. Con riferimento alla sentenza che qui si commenta da più parti si è parlato di sentenza “innovativa”, stante che i magistrati hanno ritenuto sufficiente la supposizione di una mera possibilità in astratto di violazione dell’anonimato per giustificare l’annullamento di una complessa e impegnativa procedura concorsuale.



La sentenza conferma la decisione del TAR Lombardia che il 18 luglio 2012 (Sezione IV, sentenza n. 2035) aveva annullato le prove scritte del concorso a dirigente scolastico in Lombardia, “a causa del colore bianco, della consistenza molto modesta – al limite della trasparenza – dello spessore della carta utilizzata per realizzare la busta piccola” contenente il nominativo del candidato, motivando che “nel caso di specie la possibilità astratta di attribuire la paternità degli elaborati, prima dell’apertura della busta piccola contenente le generalità dei candidati, è di per sé sufficiente ad invalidare l’intera fase della procedura relativa allo svolgimento delle prove scritte”. Ci troviamo di fronte a un nuovo orientamento giurisprudenziale che merita un approfondimento, in quanto i principi costituzionali richiamati e coinvolti nelle procedure concorsuali sono molteplici e necessitano di contemperamento.



Il principio dell’anonimato è posto a garanzia della serietà della selezione, in particolare quando si dispone di margine di valutazione nella correzione, come nel caso di tracce aperte. Esso è indissolubilmente legato al concorso, in quanto «forma generale e ordinaria di reclutamento per le pubbliche amministrazioni» (Corte Cost. sentenza n. 363/2006), rappresentata da una selezione trasparente, comparativa, basata esclusivamente sul merito e aperta a tutti i cittadini in possesso di requisiti previamente e obiettivamente definiti. Il rispetto di tale criterio è condizione necessaria per assicurare che l’amministrazione pubblica risponda ai principi della democrazia, dell’efficienza e dell’imparzialità (Corte Cost. sentenza n. 293/2009).



Il carattere fondamentale delle garanzie di anonimato dei concorrenti, al momento della correzione di dette prove scritte, è ribadito dalla costante giurisprudenza, che ha riconosciuto il carattere invalidante di qualsiasi disomogeneità contenutistica o formale delle buste, ove suscettibile di arrecare un vulnus al principio di anonimato, rendendo riconoscibile la provenienza dei testi in questione (cfr., fra le tante, Cons. Stato, sez. VI, 12 febbraio 2008, n. 481 e sez. V, 29 settembre 1999, n. 1208; Cons. Stato Sez, VI, Sent., 09-02-2009, n. 734). Tuttavia, a riguardo, in precedenza la giurisprudenza amministrativa aveva evidenziato che “nelle procedure concorsuali, il principio dell’anonimato non debba essere inteso in modo tassativo ed assoluto da comportare l’invalidità delle prove ogni volta che sussista un’astratta possibilità di riconoscimento (Consiglio di Stato, sezione V Sentenza 1 ottobre 2002 n. 5132; cfr C.G.R.S. 6 novembre 2000, n. 433).

Sulla scorta di tale interpretazione, in altre circostanze, aveva precisato (Consiglio di Stato, Sentenza n. 5017 del 6 luglio 2004) che “al fine di affermare la riconoscibilità e, quindi, l’invalidità della prova scritta è necessario che emergano elementi atti a provare in modo inequivoco l’intenzionalità del concorrente di rendere riconoscibile il suo elaborato” (Cons. St., Sez. V, 26 settembre 2000, n. 5098), ovvero che “non può comportare l’annullamento di un concorso il fatto che le buste interne di alcuni candidati siano risultate scollate in quanto non può farsi ricadere sui medesimi candidati il rischio consistente nella scollatura delle buste, non derivante, verosimilmente, dalla volontà, né tanto meno dall’intenzionalità degli stessi, che semmai, hanno interesse e volontà contrari, al fine di salvaguardare l’integrità delle loro prove” (Cds, sez. V, sentenze 1° ottobre 2002, n. 5132 e 21 gennaio 2002 n. 342; Tar Abruzzo, sede di L’Aquila, sentenza 9 giugno 2003 n. 339).

Insomma, per l’orientamento giurisprudenziale riportato, la trasparenza della busta non basta: serve il dolo. Ergo, affinché possa dirsi soddisfatta la prova della violazione del diritto dell’anonimato, deve essere chiara ed evincibile l’intenzionalità dei candidati o dei commissari di “avvalersi” della trasparenza per avvantaggiare alcuni candidati a scapito di altri: è ragionevole supporre che per utilizzare la trasparenza, anche i commissari avrebbero dovuto assumere, in momenti collegiali, comportamenti vistosamente innaturali e facilmente censurabili reciprocamente, a meno di ipotizzare una sorta di pactum sceleris tra tutti i membri della commissione.

La sentenza del Consiglio di Stato n. 3747 dell’11 luglio 2013 che qui si commenta ha profondamente deluso i sostenitori dell’orientamento interpretativo citato e quanti, operatori del settore, politici, amministratori, hanno ritenuto e affermato lungo questo ultimo anno che non si potesse prescindere dal dolo nella vicenda concorsuale lombarda, considerando altamente improbabile che il Cds gettasse alle ortiche una procedura sostanzialmente corretta in nome del pericolo astratto cui sarebbe stato esposto il principio dell’anonimato in forza della controversa trasparenza delle buste.

Il Consiglio di Stato ha sorpreso tutti. Con una motivazione ben articolata i magistrati di Palazzo Spada hanno sposato la tesi del Tar Lombardia, sostenendo che il principio dell’anonimato, realizzando “in termini pratici principi e regole di dignità costituzionale”, in concreto è talmente imprescindibile (o meglio indefettibile) nelle procedure concorsuali che la tutela dello stesso deve essere anticipata al livello del pericolo astratto e presunto, ossia senza che sia necessaria la prova di comportamenti concreti che ne abbiano integrato concretamente la lesione. Infatti, per il Cds, “l’ordinamento non chiede dunque che il giudice accerti di volta in volta che la violazione delle regole di condotta abbia portato a conoscere effettivamente il nome del candidato. Se fosse richiesto un tale, concreto, accertamento, lo stesso – oltre ad essere di evidente disfunzionale onerosità – si risolverebbe, con inversione dell’onere della prova, in una sorta di probatio diabolica che contrasterebbe con l’esigenza organizzativa e giuridica di assicurare senz’altro e per tutti il rispetto delle indicate regole, di rilevanza costituzionale, sul pubblico concorso”: ossia, in altre parole, in presenza di buste trasparenti, davanti al giudice amministrativo non c’è bisogno di provare quello che non si riesce a provare (che, cioè, i commissari abbiano in concreto violato l’anonimato delle prove d’esame, sic!).

Tuttavia, l’argomento secondo cui “non sia necessario, per la lettura dei nominativi, un comportamento effettivamente ‘fraudolento’ della commissione, in quanto, come già sottolineato, è sufficiente un impiego ‘ordinario’ delle buste affinché si possa venire a conoscenza dei nominativi dei candidati”, non convince, perché, ammesso che l’occhio possa essere caduto al commissario che maneggiava la busta, nulla toglie che un trattamento benevolo nei confronti di un determinato candidato avrebbe dovuto essere necessariamente condiviso da tutta la commissione e nel caso di specie, come il TAR Lombardia a suo tempo aveva candidamente ammesso, non vi è alcun elemento in grado di avallare l’ipotesi che la Commissione giudicatrice abbia effettivamente violato la garanzia dell’anonimato o che abbia stipulato un pactum sceleris per favorire taluno a danno di talaltro.

L’impianto motivazionale della sentenza solido sotto alcuni aspetti ne presenta altri che mal si conciliano con l’esigenza dichiarata di anticipare la soglia dell’illegittimità al quella del pericolo astratto e presunto. In particolare, in un altro capo delle motivazioni della sentenza, precisamente quello relativo all’obiezione mossa dagli appellanti circa la tardività della contestazione della trasparenza delle buste da parte dei ricorrenti, in quanto “l’astratta possibilità, foriera della lesione immediata ed attuale del principio dell’anonimato, esisteva già al momento della consegna delle buste ai candidati”, il Consiglio di Stato sembra sfumare l’indefettibilità proclamata del principio dell’anonimato, affermando che “nelle procedure concorsuali l’interesse a ricorrere sorge nel momento in cui vengono adottati i provvedimenti finali di esclusione dal concorso per mancato superamento della prova scritta” e che, quindi, nessuno dei ricorrenti aveva “un onere di impugnazione immediata dei verbali della commissione”, fin dalla data di svolgimento delle prove scritte.

Sul punto il TAR Emilia Romagna – Bologna, Sezione 1 Sentenza 15 gennaio 2010, n. 109, aveva affermato che le lamentele sulla inidoneità delle buste andavano fatte al momento della effettuazione della prova, cosicché ne risultasse traccia a verbale. Il fatto che quanti abbiano ravvisato siffatta idoneità e l’abbiano taciuto integra una grave violazione del principio di correttezza e buona fede che deve informare il rapporto tra i cittadini e tra questi e la Pubblica amministrazione. Il silenzio viene a rilevare quale lesione del canone di lealtà. È evidente che, seguendo l’argomentazione espressa sul punto dal Consiglio di Stato, il pallino dell’annullamento di un pubblico concorso potrebbe rimanere nelle mani di quanti in malafede omettano di segnalare tale irregolarità al momento dello svolgimento della prova scritta, per riservarsela come motivo di doglianza in caso di esito infausto della stessa.

Se è vero, quindi, che con riferimento al principio dell’anonimato “la soglia dell’illegittimità rilevante [deve essere] anticipata all’accertamento della sussistenza di una condotta concreta non riconducibile a quella tipizzata”, connotandosi quale “illegittimità da pericolo astratto e presunto”, ci si chiede perché secondo il medesimo Cds questo non valga già fin dal momento dell’espletamento della prova scritta, quando tale pericolo astratto e presunto deve ritenersi conclamato in presenza di buste trasparenti “ad un uso normale”. Che senso ha allora parlare di “regole di condotte tipizzate, riconducibili all’amministrazione e ai candidati, che indefettibilmente devono essere osservate nelle procedure concorsuali”? Quando comincia tale indefettibilità?

Quando il Consiglio di Stato ha disposto la verificazione sulle buste, la formulazione del quesito tendeva a fissare il focus probatorio non solo e non tanto sulla mera consistenza delle buste che pure doveva essere accertata (punto a) del quesito) quanto sulla possibilità concreta e sulle modalità con cui l’eventuale trasparenza potesse essere utilizzata per violare il principio dell’anonimato (punto b) del quesito che testualmente chiede di “verificare se e con quali modalitàsiano leggibili i nominativi dei canditati posti all’interno delle buste”), lasciando presumere che la trasparenza non fosse di per se stessa sufficiente o rilevante in relazione ai comportamenti soggettivi necessari per giungere alla violazione del principio dell’anonimato.

Il verificatore con un certo cerchiobottismo ha accertato sia l’idoneità delle buste rispetto alla custodia del segreto epistolare sia la leggibilità in tutte le condizioni esperite solo dopo l’eliminazione dello strato d’aria, eliminazione che, comunque, presuppone un concreto comportamento umano, che i magistrati di Palazzo Spada nella sentenza hanno deciso consapevolmente di non tenere in considerazione, stante l’asserita evidente disfunzionale onerosità di giungere per quella via alla prova della concreta violazione dell’anonimato, che addirittura integrerebbe un’inversione dell’onere della prova. Ma il principio per cui “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento” non vale pure per i pubblici concorsi? Oppure bisogna supporre che da oggi in avanti chiunque non superi una fase concorsuale possa ricorre al Giudice amministrativo sulla base della mera supposizione di una presunta ingiustizia che sarà esclusivo compito della Pubblica amministrazione contrastare provando la regolarità del proprio operato?

Sono domande destinate a rimanere senza risposta. Quella che ne esce vincente è la logica del ricorso, che oggi può vantare anche il suggello di questa sentenza del Consiglio di Stato, nei confronti una Pubblica amministrazione sempre più incapace di garantire il rispetto delle norme, dei tempi e delle modalità dei pubblici concorsi. La sentenza, che sicuramente vuole essere un monito per il futuro nella misura in cui pone l’accento sull’esigenza organizzativa e giuridica di assicurare senz’altro e per tutti il rispetto di regole di rilevanza costituzionale nei concorsi pubblici, punta il dito sulle inefficienze della Pubblica amministrazione che non ha adeguatamente vigilato sull’idoneità delle buste acquistate per l’uso concorsuale. Purtroppo, si deve osservare che il prezzo di queste disfunzioni e incapacità organizzativa oggi in Lombardia lo pagano famiglie, studenti e insegnanti che sono costretti ad attendere a tempo indeterminato l’assegnazione di un dirigente scolastico alle oltre 400 scuole oggi scoperte.

L’attesa cui sono costrette le scuole lombarde è diventata “caso nazionale” e in questi giorni in Parlamento si parla chiaramente di emergenza scuola lombarda. Un’emergenza che diventa più grave nell’attuale situazione politica ed economica dove la scuola rimane veramente l’unico ascensore sociale per ogni cittadino, l’unica speranza di futuro in un tempo assolutamente incerto, l’unico vero investimento in grado di restituire a questo Paese dignità e prospettive di sviluppo. L’insostituibile e quotidiano impegno della scuola nella formazione delle nuove generazioni, perché siano in grado di affrontare e gestire il cambiamento e le sfide degli anni a venire con competenza e attaccamento ai valori costituzionali della partecipazione civile, del merito e della solidarietà, chiede il sostegno di tutte le forze politiche e sociali nonché la lungimiranza delle scelte e delle decisioni a tutti i livelli.

Invero, nella vicenda in questione il principio dell’anonimato non è l’unico principio costituzionale coinvolto, in quanto a rischio vi è anche l’effettività del diritto all’istruzione, del diritto a conseguire i gradi più alti di formazione, del diritto a svolgere pienamente la propria personalità nelle formazioni sociali frequentate, di cui la scuola costituisce esempio eminentissimo. Sono tutti diritti costituzionalmente sanciti e che passano anche attraverso le istituzioni scolastiche, le quali possono svolgere adeguatamente il loro compito istituzionale e costituzionale solo se adeguatamente gestite, amministrate e dirette.

Lo sanno bene le scuole della Lombardia che, a seguito di questa sentenza Consiglio di Stato, dovranno attendere ancora per un tempo lungo e incerto l’arrivo di una nuova generazione di dirigenti scolastici in grado di assicurare professionalità, presenza, passione e competenza per gestire il cambiamento e il rinnovamento cui è chiamata la nostra scuola e il nostro Paese.

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