La lettera del candidato bocciato nella prova di italiano, nonostante una grandissima competenza accumulata sul campo, documenta perfettamente e conferma l’incapacità strutturale dell’amministrazione scolastica di selezionare il personale della scuola, docente e dirigente. 

In tutti questi anni, in cui si è vociferato di riforme, e in cui quattro ministri si sono dati il cambio, la questione cruciale della selezione del personale è sempre stata affidata ai meccanismi classici dell’amministrazione. Questo giornale ne ha più volte denunciato l’inefficacia, l’arbitrarietà, la crudeltà idiota, malamente nascoste sotto la parvenza dell’oggettività e della imparzialità dei meccanismi. 



Le responsabilità della politica e dei sindacati sono enormi e assolutamente trasversali agli schieramenti. La piattaforma culturale comune è la stessa da sempre. I meccanismi della selezione del personale devono essere gli stessi di quelli applicati ai ragazzi dagli 11 ai 19 anni: prove orali e prove scritte, organizzate dentro una tempistica concorsuale per titoli ed esami. Recentemente sono stati introdotti i quiz. Per darsi un’aria di modernità? Non solo. La loro funzione principale è quella di abbattere al suolo dalla metà ai due terzi degli aspiranti. Praticando un universalismo demagogico, in forza del quale tutti hanno diritto di partecipare ad ogni concorso (così non esiste praticamente un limite inferiore di età per l’accesso al concorso per dirigenti) e non indicendo i concorsi periodicamente, la platea che si presenta ogni volta al sospirato percorso di guerra richiederebbe alcuni stadi di calcio per esservi contenuta. Ecco dunque i quiz: molte domande in poco tempo, spesso demenziali, quando non errate. 



Paradossalmente, i più fortunati sono quelli che non sopravvivono. Si mettono il cuore in pace, fino alla prossima occasione, che arriverà, forse, ma non si sa quando. Quelli che vanno oltre le moderne forche caudine, si trovano subito davanti delle prove scritte. Nel caso delle prove di italiano, le griglie di valutazione sono sempre le stesse, da quando viene corretto il primo tema in prima media fino alle prove della maturità: pertinenza, correttezza linguistica, completezza, originalità. Applicate alla prova di un insegnante di italiano, possono al massimo ribadire che l’insegnante in questione sa scrivere. Ma non se ne può assolutamente concludere che sappia praticare la didattica della lingua. Lo stesso valga per storia e per qualsiasi altra materia che sia oggetto di scritto. 



La prova può ribadire la certezza che il candidato conosca la materia – ma allora la laurea a cos’è servita?! – non che la sappia insegnare, anche se facesse uno splendido scritto su come dovrebbe essere insegnata. Insomma il difetto sta nel manico. 

La funzione docente e dirigente è definita da una tavola di competenze-chiave: conoscenze disciplinari, capacità didattiche, saper stare in relazione educativa, saper lavorare nella comunità professionale, sapersi collegare con il mondo “là fuori”. Il mondo intero viaggia ormai su questa tavola di competenze-chiave, i ministri le ripetono in ogni convegno, peccato che l’amministrazione da loro governata – ma è ormai evidente che l’amministrazione governa i ministri! – continui esattamente come quella di 150 anni fa. 

Il dato clamoroso, che non produce scandalo nella politica, nell’opinione pubblica, nella società civile, è che le prove per selezionare i futuri insegnanti e i futuri dirigenti sono totalmente fuori bersaglio. Non i candidati, ma le prove dovrebbero essere bocciate! C’è un metodo per selezionare in base alle competenze-chiave? Quello che questo giornale ha ripetutamente segnalato e che viene praticato in quasi tutti i Paesi europei è basato su due pilastri: lo “storico” della carriera professionale – se il candidato è già in servizio – o del periodo di praticantato/tirocinio – se aspira per la prima volta al servizio; il colloquio con un’équipe composta da un dirigente e da insegnanti esperti. Eventualmente, uno scritto di un paio d’ore, dove il candidato espone la propria filosofia didattica e educativa, sulla base della propria esperienza. 

Sì, il difetto sta nel manico, perché in Italia è l’amministrazione che costruisce i percorsi di selezione e li implementa, mentre altrove l’amministrazione affida alla scuola reale il meccanismo selettivo e ne legittima burocraticamente i giudizi. A prima vista, è l’uovo di Colombo. Ma per farlo stare in piedi serve un cambio radicale di mentalità, di metodi. A questa macchinosità barocca appartiene, dedotta more geometrico, la modalità della composizione delle commissioni: fatte da docenti esperti? Esperti in discipline o in didattica delle discipline? Chi scrive ha partecipato un paio di volte alla correzione di più di seicento elaborati di candidati ad un concorso. Molto meglio una giornata in miniera con i damnati ad metalla! Dopo aver corretto i primi dieci scritti, si avvia un loop di alienazione e di istupidimento: è certo che i successivi cinquecentonovanta saranno corretti in modo molto diverso. L’unica griglia oggettiva è quella dell’ortografia e della sintassi. Tutte le altre sono ampiamente soggettive, condizionate appunto dalla soggettività alienata del correttore seriale. Al trentesimo scritto il correttore è afferrato dall’impulso di lasciare la penna e prendere in mano la pistola per suicidarsi sull’enorme pila di scritti. Donde l’arbitrarietà alienata e crudele dei giudizi. 

Né si può escludere, a quel punto, che qualche commissario decida di procedere per decimazione o pluridecimazione. Non voglio qui difendere Francesca De Sanctis e colleghe, ma è evidente che sono persone sbagliate al posto sbagliato, chiamate a decidere, dietro modesto compenso, cose assai più grandi di loro, quali il destino professionale e la condizione esistenziale di decine di candidati. 

C’è un modo per difendersi da questo meccanismo orribile e foriero di conseguenze dolorose e talora tragiche per la vita di tanti candidati? Resta quello dei ricorsi. La complicazione delle procedure è tale che chiunque non abbia strumenti per contestare il merito dei giudizi può sempre andare a cercare pecche nelle procedure di composizione e di funzionamento delle commissioni. Per avviare questo iter occorre predisporsi a spendere altro denaro, oltre a quello già speso per i corsi di preparazione, gli spostamenti, i pernottamenti, eccetera. Ci sono in giro avvocati avidi e incompetenti di diritto scolastico amministrativo, che non aspettano altro. O la trasparenza delle buste o i conflitti di interesse dei commissari (che magari, fino al giorno prima, hanno tenuto corsi di preparazione agli esami, di cui sono commissari) o una firma mancata… innescano interminabili percorsi di contestazione dei risultati. 

In questa sarabanda burocratica si trovano a loro agio i Tar, il Consiglio di Stato, la Corte dei conti e i giudici, la cui incompetenza è nascosta dalla funzione sacrale. L’amministrazione, a sua volta, appresa ormai la lezione, risponde a muso duro e, nel caso, si fa approvare dal ministro prono leggine e sanatorie. Valga quale esempio per i posteri la famosa legge Siragusa, volta a sanare le contraddizioni del reclutamento siciliano dei dirigenti. Con risultati pirandelliani: un giudice ha decretato la ricorrezione di 106 scritti, già “passati” dalla Commissione precedente (del 2006?). La commissione attuale del nuovo concorso successivo ne ha bocciati 91 su 106. È evidente che una delle due commissioni o tutte e due sono inaffidabili. 

E le raccomandazioni? Tutti sanno che si praticano spudoratamente, che i dirigenti, in particolare, sono scelti per blocchi politico-sindacali. Alla fine, in questo meccanismo perverso, prevale un intreccio mafioso-clientelare tra amministrazione, politica, sindacato, che si spartisce la composizione delle commissioni e quindi degli “eletti”. Perciò, nessuna delle possibili reazioni spiritosamente evocate dall’autore anonimo della lettera al sussidiario.net può risolvere il problema, neppure sul piano individuale. 

Resterebbe la politica come arte di cambiare insieme le cose. Il corpo docente, tuttavia, è tra i più ideologizzati e i meno politicizzati, come “un volgo disperso che nome non ha”…