Cari colleghi,
si stanno ormai concludendo gli esami di Stato e chi ne è stato coinvolto potrà finalmente riposare dopo l’impegno dell’anno scolastico. L’errore che, però, potremmo commettere è quello di archiviare al più presto questa parentesi sentita come un peso che si deve portare piuttosto che riflettere su quanto accaduto. 



Vorrei partire da un fatto che mi pare emblematico del mondo della scuola attuale. Alla prova scritta di italiano, i ragazzi sono visivamente provati. Come commissario interno e segretario della commissione, corro avanti e indietro per assolvere ai compiti nella calda e afosa mattinata di  mercoledì. Un commissario esterno ad alta voce, perché anche i ragazzi possano sentire, esclama: “Gli studenti non sanno che gli esami sono solo fatica e sbattimento, nulla più. Li prendono sul serio”. Uno studente mi guarda con occhi che comunicano un chiaro giudizio sull’affermazione di quel docente. Finita la prova, il ragazzo mi aspetta per dirmi che non mi ha mai visto così provato. 



Nelle sue parole c’è tutta la sua gratitudine. L’adulto ha già assistito tante volte agli esami, per il diciottenne è il primo e unico esame conclusivo del corso delle superiori, è l’esame che per sempre nella sua vita rappresenterà il suo esame di Stato. Ha ragione il giovane che vive con lo slancio di chi affronta la vita senza ancora conoscerla e che palpita nel cuore nell’attesa di scoprire cosa la vita gli riservi o ha ragione l’adulto che sa già come va a finire e che, quindi, non si illude più? Questa non è una divisione anagrafica, ma di cuore. Ci sono giovani che sono già vecchi, perché sanno già che l’amore vero non esiste o che la vita non riserva troppe sorprese, come ci sono adulti che hanno ancora il cuore aperto alla novità della prima volta. Sempre più si vede l’influenza del cinismo degli adulti sul mondo dei giovani. Sempre più i giovani sembrano avvertire che non ci siano ragioni per cui valga davvero la pena fare fatica e affrontare la realtà ordinaria se non motivazioni strettamente economiche. Nell’ordinario costituito dalla scuola o dal lavoro si deve cercare di sopravvivere, come mi ha scritto uno studente, per poi vivere nei weekend di libertà sfrenata, di sballo, di stordimento. La realtà non è più percepita come interessante, gli impegni e le responsabilità vanno evitate, vige la “filosofia dello zaino vuoto” presentata dal protagonista del film Tra le nuvole.



La maturità del mondo degli adulti è forse questa, quella di chi sa già, di chi conosce le fatiche e ha capito che, in fondo in fondo, non ne vale la pena, è tutta una farsa la scuola, così come la vita? Forse per questo da qualche anno si chiamano esami di Stato quelli che un tempo erano chiamati esami di maturità? 

La parola “maturità”, che piaccia o non piaccia, un tempo richiamava il fatto che il percorso scolastico non fosse solo di istruzione, ma anche di educazione e di crescita della persona. Le parole sono davvero forti e potenti. Sostituire l’espressione “maturità” con “Stato” toglie la possibilità di ogni equivoco: la scuola non ha il compito di far crescere persone, di portarle a maturazione, di introdurle all’avventura della scoperta della cultura e della realtà, ma deve certificare competenze. 

Pavese riprende nel suo diario Il mestiere di vivere l’espressione shakespeariana (King Lear) Ripeness is all, ovvero “la maturità è tutto”. Di quale maturità parlava Pavese? Senz’altro per l’autore nativo delle Langhe la maturità aveva a che fare con l’essere pronti alla vita (cioè ad affrontare la realtà e i problemi, non a scansarli), con la consapevolezza di sé e della realtà, del mito (ciò che si ripete e rimane uguale nel tempo) e della storia (quanto accade una volta nel tempo). La maturità permette di stare di fronte al compito della vita (“mestiere di vivere”) che è affascinante quanto faticoso (“Lavorare stanca” è il titolo di una famosa raccolta di poesie di Pavese). 

Date queste premesse, se è vero che gli esami posti al termine del ciclo delle superiori non potevano certo valutare la maturità di un ragazzo in questa prospettiva, è anche vero che l’espressione aveva la funzione di richiamare una sorta di rito di iniziazione della società occidentale, una prova nella quale si doveva dimostrare una capacità di giudizio, di rielaborazione, di poter affermare “io dico la mia”. Basti pensare che fino a quindici anni fa lo studente portava per il colloquio orale solo due discipline. La prova diventava davvero un momento in cui il ragazzo doveva dimostrare non di aver acquisito le nozioni fondamentali che i professori desiderano sentirsi dire (a mo’ di bigino), ma di aver approfondito, fatto proprie le materie studiate. Chiunque legga questo articolo e sia stato commissario interno o esterno o abbia sostenuto gli esami in questi quindici anni comprende bene di cosa io stia parlando: i colloqui orali più che valutare le capacità retoriche, di rielaborazione e di approfondimento sono una somma di mini interrogazioni di cinque minuti ciascuna in cui si chiedono nozioni elementari (come si può del resto pensare che i docenti interroghino in dieci materie in maniera approfondita su un dettaglio?). 

Questi “interrogatori” sono preceduti dalla tesina, un momento che solo in pochi casi risulta davvero l’occasione di un lavoro originale e personale del ragazzo. Solo quando il Consiglio di classe accompagna durante l’anno scolastico il lavoro della tesina come se fosse una piccola “tesi universitaria” con suggerimenti bibliografici da leggere, con schedature, con la stesura di un percorso che sia davvero frutto di un lavoro personale si può dire che la tesina abbia un senso. 

Da anni nella maggior parte dei casi gli studenti ripropongono argomenti che i docenti hanno sentito centinaia di volte e che di originale non hanno nulla. Molti comprano le tesine o le scaricano gratuitamente da internet (apportando magari qualche variazione di linguaggio).

Io credo che dopo quindici anni si possa anche dare un giudizio e tornare indietro, se ci si accorge che il sentiero intrapreso non è quello che porta alla cima. Ma forse il ministero, una volta appurati gli esiti negativi, ha già in mente altro: le prove Invalsi anche nell’esame di Stato attraverso la sostituzione della terza prova elaborata dalla commissione con una prova a crocette che valuterà la cultura o le competenze dello studente. Crediamo davvero che con una prova a crocette (in cui i fattori fortuna e copiatura sono assai alti) si possa valutare un ragazzo? O forse pensiamo che una prova simile soddisfi meglio al criterio della oggettività e imparzialità della valutazione? 

Da parte mia, sono fermamente convinto che l’oggettività sia da un’altra parte. Se è vero che l’oggettività assoluta non esiste, è anche vero che una prova deve permettere di profondere in campo tutta la persona, la sua sensibilità, la sua intelligenza, le sue doti retoriche, le sue letture, la sua storia, le capacità di analisi e di sintesi. Può permettere questo una prova a crocette o un esame orale concepito come somma di tante interrogazioni o una prova scritta in cui si sottopongono agli studenti argomenti che, nella maggior parte dei casi, non hanno mai affrontato oppure si offrono addirittura i documenti per la stesura del saggio e dell’articolo? 

Il ministro Carrozza ha parlato di esame che deve diventare di orientamento, cioè sul futuro: «Occorre ripensare l’esame di maturità e gli ultimi due anni delle scuole superiori in funzione dell’orientamento sul futuro. Si deve studiare per l’esame, ma anche pensare a cosa si studierà e dove si lavorerà dopo». Avete mai visto far sostenere ad un ragazzo un esame non sul percorso affrontato, ma su quello che affronterà? Il ministro, invece di invitare i ragazzi ad affrontare con serietà la realtà e il presente, li sprona ad evadere verso il futuro. La consapevolezza di sé, del proprio compito e delle proprie responsabilità avviene in un impegno serio con il reale, così come è sempre accaduto. Ritorniamo a scommettere sui ragazzi, ritorniamo all’idea di un esame che possa valutare tutto il percorso di crescita del ragazzo, il quale possa mettere in campo tutta la sua cultura, la sua esperienza, i giudizi che ha fatto propri su quanto studiato.