Caro direttore, qualche tempo fa, mentre visitavo un’amica ricoverata in ospedale, mi sono imbattuta in un cartello a dir poco singolare, che recitava, testuali parole: “Vietato fumare. In ogni caso, non gettare cenere e sigarette per terra”. Lì per lì, divertita, ho fotografato il cartello, l’ho postato su un social network e l’ho mostrato agli amici come un cimelio, commentando bonariamente: “Che popolo simpatico e poco ingessato, noi italiani!”. La finezza tutta italiota di quell’”in ogni caso”, e il suo insinuante strizzare l’occhio al trasgressore, mi avevano davvero ammirata.



Ma in questi giorni mi sono trovata a ripensarci, alla luce delle vicende in cui sono stata coinvolta negli ultimi mesi. Sono infatti un’aspirante insegnante di scuola secondaria, e ho appena concluso il famigerato Tfa (Tirocinio formativo attivo), che, a prezzo di lacrime e sangue (e più che altro di una tassa universitaria di 2500 euro, tristemente simile a un pizzo), mi ha finalmente infilato in tasca, alla tenera età di 29 anni, la sospirata abilitazione. Si domanderà cosa c’entri tutto questo col cartello in ospedale; penserà che, a botte di corsi di pedagogia domenicali, i miei neuroni residui siano migrati verso altri lidi. Mi permetta di spiegarmi.



Al termine di un percorso disorganizzato, costosissimo e impegnativo, io e i miei colleghi, che abbiamo superato tre prove selettive in ingresso, mesi di corsi, laboratori e tirocinii, e un numero di prove finali di cui ho perso il conto, ci troviamo, all’indomani della liturgia pagana dell’“esame di abilitazione”, nella seguente situazione:

1. A meno di miracoli, dovremo aspettare un anno per poter far fruttare il nostro titolo, ed essere inseriti in una qualche graduatoria. Non importa che da sempre ai neoabilitati venga garantito di essere immessi in graduatoria in automatico senza aspettare l’anno di riapertura; non importa che i corsi siano stati condensati fino a renderli infernali strumenti di tortura per permetterci di concludere entro l’estate e non perdere l’anno scolastico successivo. Neppure importa che fossimo stati ampiamenti tranquillizzati dalle istituzioni a questo riguardo. Niente di questo importa. O almeno, gli interlocutori istituzionali sembrano essersi volatilizzati. Le graduatorie riapriranno nel 2014, e, fino a quel momento, possiamo andare a pescar rane, in barba a promesse elettorali e proclami ministeriali.



2. È di oggi la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale di un decreto contenente l’approvazione dei cosiddetti TFA speciali (si chiameranno Pas), ovvero Percorsi abilitanti destinati a chi abbia maturato, dal 1999 al 2012, almeno tre anni (anche non continuativi) di servizio. Personalmente, ho provato a riflettere il più lucidamente possibile sul tema, cercando di prescindere dai miei interessi egoistici immediati (in base a quelli, la partita sarebbe stata chiusa in partenza, ma che c’entra? Anche i miei compagni di classe di abilitazione, in quanto potenziali concorrenti, vanno contro il mio interesse, ma di certo non lo ritengo un buon motivo per tagliar loro le gomme!). Il giudizio a cui sono pervenuta è: non vi è una sola ragione per cui debba venire istituito un percorso diversificato (e facilitato), per giunta privo di selezione in ingresso, di questo tipo, e ciò per un buon numero di ragioni.

Innanzitutto, coloro che possiedono i requisiti per il Tfa speciale potrebbero tranquillamente partecipare alle future selezioni del Tfa ordinario, forti del consistente punteggio loro attribuito nella selezione iniziale per titoli di servizio, punteggio che consentirebbe loro di scavalcare senza problemi qualsiasi neolaureato o perfino dottore di ricerca (come la sottoscritta). Purché, ovviamente, siano in grado di superare le prove selettive: ma se non lo fossero, forse sarebbero a quel punto problemi loro… Vale a dire: un neolaureato non può accedere al Tfa speciale, e anzi, nel caso di attivazione di quest’ultimo, vedrebbe ridursi considerevolmente le chances che venga nuovamente bandito l’ordinario; invece l’avente diritto allo speciale può partecipare all’ordinario. Ma allora perché non mantenere solo l’ordinario, ripetendolo a cadenza frequente, e magari potenziando il sistema di “sconti” sul tirocinio per chi già insegni? Ciò consentirebbe un accesso controllato, provvisto di selezione meritocratica, in cui neolaureati e docenti già “esperti” potrebbero giocarsela ad armi pari (o quasi).

Seconda ragione: il numero di potenziali abilitati mediante lo speciale è mostruosamente fuori controllo. A cosa è servita la meticolosa opera di ricognizione finalizzata a bandire un numero equilibrato di abilitazioni nell’ordinario, se poi si immettono in graduatoria, indiscriminatamente, migliaia di nuovi abilitati? A questo punto, e qui interviene la motivazione personale, la mia abilitazione non vale più i 2.500 euro che ho speso, perché a breve verrò scavalcata da una massa di persone che, con la loro anzianità, renderanno altamente improbabile per me insegnare nei prossimi anni. Mi sarebbe piaciuto saperlo prima del salasso.

Ancora: tre anni di servizio dal 1999 al 2012 garantiscono competenza e professionalità? Forse chi lo crede ha in mente uno scenario popolato da molte scuole paritarie di qualità, in cui essere assunti come docenti è sinonimo di merito. Ma la gran parte dello Stivale vede un’altra situazione, in cui tre anni di servizio in 13 anni può averli prestati chiunque fosse iscritto in graduatoria di terza fascia; in cui non c’è una pluralità di paritarie in cui “spendersi” il titolo acquisito; in cui si può praticamente solo mettersi in coda e attendere pazienti il proprio turno. Nel momento in cui questi percorsi speciali verranno attivati, a insegnare andrà, insieme certamente a tanti docenti di valore, una massa di persone di mezza età, non necessariamente meritevoli e certamente non più giovani. Andrà, in sintesi, la fascia dei precari, protetti, tutelati e coccolati dai sindacati, a spese dei neolaureati, senza tessera sindacale in tasca, e perciò privi dell’appoggio di alcun gruppo di pressione.

Infine: perché gli aventi diritto allo speciale, che hanno avuto a disposizione varie tornate della defunta Ssis, oltre che il primo ciclo di Tfa ordinario, sono arrivati ad oggi senza conseguire alcuna abilitazione? Avevano altro da fare? Non hanno superato le selezioni? In ciascuno dei due casi, mi verrebbe da glossare brutalmente: dura lex, sed lex.

Tutto ciò mi porta alla seguente riflessione. Al di là dell’ovvia e ritrita constatazione che il nostro non è un paese per giovani, credo si possa dire che in Italia esistono due binari: quello ideale e quello fattuale; quello ordinario e quello speciale; quello della regola, e quello dell’eccezione. 

Da una parte, si sbandierano meritocrazia, rigore e selettività (nel nostro caso, fissando severi numeri chiusi per mantenere un controllo sul numero degli insegnanti e sulla loro preparazione, oltre che per non “creare false aspettative lavorative”); dall’altra, sotto la spinta di qualche pressione, si ammicca a chi resta escluso, lasciandogli intendere di non preoccuparsi, perché tanto in qualche modo si fa, una soluzione c’è sempre, ecc. (purché ovviamente l’escluso in questione abbia qualche diritto acquisito, o sia membro di una qualche corporazione di quelle che tengono in scacco il Paese, o sia amico di amici, o roba così. Non si ammicca certo a quei paria che sono i giovani bravi, capaci, neolaureati, ai quali non si concede neppure la chance di tentare). 

È il principio per cui il vigile urbano che ha già estratto il taccuino per fare la multa si arresta di botto (“scusami, non ti avevo riconosciuto!”) e per cui il bibliotecario vede la tessera dei prestiti scaduta e apostrofa il conoscente: “sarebbe vietato, ma, trattandosi di te…”. È la logica dell’insofferenza per le norme, del superare la fila per comprare i ravioli alle sagre; del “non si potrebbe ma…”, “la regola è questa però…” e via discorrendo. Il principio delle scadenze mai tassative, degli impegni mai definitivi, sempre temporanei e derogabili; delle eccezioni rese note ex post, a danno di chi le regole le ha seguite e rispettate; dei canali preferenziali attivati a giochi iniziati.

Ora, io, ben lungi dal fantasticare una società retta dalle sole regole, che, come paventava il grande Solzenicyn, appiattirebbe gli slanci migliori dell’uomo, ovvero quelli supererogatori, ritengo che in molti ambiti dell’esistenza se ne possa fare tranquillamente a meno. Nei rapporti personali, ad esempio, come sapeva già Aristotele, non c’è bisogno di normare tutto, perché amore, amicizia e stima, se sono reali, comprendono in sé la giustizia, essendole superiori. E lo stesso certamente vale per molte dinamiche all’interno della società civile, ridurre le quali alla mera proceduralità sarebbe arida follia.

Ma credo anche che un Paese che voglia avere una qualche credibilità istituzionale debba reggersi su regole precise, che non vengano continuamente corrette in itinere da fiumi di eccezioni, postille e nota bene a vantaggio di alcuni. Per inciso, credo che questo, oltre a evitare l’esaurimento nervoso a molti, in generale aiuterebbe gli italiani ad uscire da uno stadio che somiglia a una infanzia viziata fuori tempo massimo, in cui mamma-Stato nega il gelato per poi concederlo sottobanco al primo capriccio; li aiuterebbe ad accettare di essere valutati e selezionati, e dunque a impegnarsi a tempo debito, se vogliono ottenere qualcosa; a sbattere il naso contro l’evidenza che non c’è sempre un escamotage per aggirare gli ostacoli, che a volte occorre prendere atto di un fallimento, o di una strada che si sbarra; che a volte occorre perfino accettare che le cose giuste siano svantaggiose per sé nell’immediato. Insomma, li aiuterebbe a diventare adulti.

Il binario collaterale dei cartelli di divieto soft, delle postille nei regolamenti, degli occhiolini sindacali e delle multe strappate, non ci sta portando da nessuna parte: è un binario morto.

Lettera firmata

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