Si può raccontare in un romanzo per ragazzi la storia di un bambino di cinque anni colpito dalla leucemia? Lo si può fare senza essere retorici o, peggio, mielosi? Senza speculare sulla malattia altrui per costruire un furbo bestseller che tocchi le corde giuste dei lettori? Lo si può fare addirittura in un libro in cui spesso si sorride, anzi si ride? Lo si può fare senza essere irrispettosi verso chi ci è passato davvero?
Lo si può fare se si ha la delicatezza di far parlare il fratello maggiore del malato, se l’io narrante è quello sincero e convincente di un tredicenne travolto da ciò che sta succedendo in famiglia, lo si può fare se ci si chiama Sonnenblick.
I 10 mesi che mi hanno cambiato la vita, di Jordan Sonnenblick, in libreria nella collana Extra di Giunti, fa tutto questo.
Steven è un ragazzino come tanti altri: è appassionato di musica, con la batteria è un fulmine, si ritrova interessato a quelle stesse ragazze che fino a poco tempo prima erano così neutre se non addirittura un fastidio (un intralcio nel mondo dei maschi) e deve fare i conti con i compiti e le verifiche di scuola. Come tutti. A un tratto, però, il suo fratellino Jeffrey, di cinque anni, si ammala di leucemia e niente è più come prima. La malattia dà una martellata all’orologio, ferma il tempo, scompiglia gli equilibri. Tutti ovviamente guardano da un’altra parte, a Jeffrey e Steven all’improvviso diventa invisibile.
C’è molto in questa storia: il tentativo di Steven di negare la gravità della situazione, il riscontro dell’incapacità di comunicazione soprattutto del padre, la rabbia per trovarsi improvvisamente trascurato dai suoi, il senso di colpa per pensare così tanto a se stesso quando non dovrebbe pensare ad altro che al fratello ammalato, la compagnia degli amici che non restano indifferenti, la scoperta di sé come fratello prezioso.
L’ironia usata da Steven, a volte veramente divertente, a volte amara, si svela facilmente come il suo tentativo di difesa verso una situazione che sembra impossibile da affrontare. E ci fa tenerezza, anche quando lui vuole fare il duro, o il cattivo.
La svolta arriva quando, su invito di un adulto, Steven accetta di concentrarsi sulle cose che può cambiare in prima persona, senza darsi compiti a lui inarrivabili.
Può cambiare soprattutto il suo sguardo verso Jeffrey, può scoprirsi un fratello capace di compagnia, come riesce, con tutte le sue contraddizioni.
Sonnenblick, autore americano, ci presenta inoltre un paese, il suo, dove ammalarsi può coincidere con la rovina economica di una famiglia, dove al dispiacere per la sofferenza si associa la preoccupazione dei conti da pagare che salgono alle stelle. E leggendo ci viene un respiro di sollievo a pensare che a noi, tutto questo, viene risparmiato in caso di malattia.
C’è molto in questa storia. Certo non c’è tutto.
C’è la discretissima frequentazione della madre nella chiesa dell’ospedale e le sue preghiere, che scopriamo come di sfuggita solo nelle ultime pagine. E’ questa una discrezione eccessiva, che sottrae a Steven quell’ipotesi interessante che da solo non riesce a considerare e che nessun adulto sa proporgli.
C’è un eccesso di identificazione con Jeffrey, che porta tutti i ragazzi della band a radersi i capelli come lui, nell’ingenuità di pensare che diventare simili possa essere di aiuto, come se sapesse togliere davvero un solo briciolo di sofferenza.
Resta che nel romanzo di Sonnenblick, c’è molto. E sarebbe un peccato perderselo. Al lettore, nella sua vita, sta aggiungere ciò che manca.