Che «le parole fanno un effetto in bocca, e un altro negli orecchi» è una verità universale, che evidentemente non riguarda appena i nostri giorni e il cyberbullismo, se già alla fine dei Promessi sposi se ne rende conto Renzo, il quale «prima d’allora era stato un po’ lesto nel sentenziare, e si lasciava andar volentieri a criticar la donna d’altri, e ogni cosa». Solo quando certe parole gratuite iniziarono a toccare anche Lucia, egli «prese un po’ più d’abitudine d’ascoltar di dentro le sue, prima di proferirle». I pettegolezzi del paesino di quattrocento anni fa avrebbero trovato su Facebook o su Twitter niente di più che un devastante amplificatore.



Se ancora ci tocca sapere, dopo Carolina di Novara, del suicidio di un’altra adolescente, questa volta inglese, che si è sentita sopraffatta dagli insulti su Ask.fm, e se, come ci raccontano i giornali, un’intera scuola dell’Ohio è in ginocchio perché le reciproche diffamazioni sul web sono ormai fuori controllo, non vanno soltanto messe in discussione le tecnologie odierne: perché, come sempre, quel mezzo è tutt’uno con la sua sostanza. Il problema, che senz’altro è recente e generazionale, affonda in una radice sempiterna e che ci riguarda tutti, anche gli adulti che non sanno connettersi e che da giovani non hanno neppure mai scritto sui muri che la signorina X fa il mestiere più antico del mondo abbreviando sapientemente il concetto tramite la callida iunctura di due sostantivi. Per questo mi permetto di avanzare due ipotesi: la prima è che non è appena vero che certe cose non si dicono a nessuno: il fatto è che certe cose si dicono a nessuno; la seconda è che non è vero che sono cose che non si dicono, ma che quelle che si dicono non sono cose. Partiamo dall’ultima.



Su Facebook e affini la gente di solito non scrive nessuna cosa, ma vomita ciò che in quel momento gli passa nel cervello (o più probabilmente in altre parti del corpo). A essere rigorosi, non si tratta di frasi ma di rutti. Io sono così abituato a leggere che uno non ce la fa più a vivere, che un’altra sta andando a pugnalare la ex dell’attuale fidanzato e che un altro ancora è in procinto di piazzare una bomba a scuola che non me ne preoccupo minimamente: so bene che puntuali, due o tre ore più tardi, l’aspirante suicida condivide Meraviglioso dei Negramaro, che lei e la ex di lui si taggano con le labbra all’in su mentre bevono l’aperitivo, e che il bombarolo si gloria del suo 9 e mezzo in greco.



In un contesto simile, la distruzione pubblica di una persona che non regge al massacro di infamie attinge a un problema non moralistico ma linguistico, che a sua volta sottende un rapporto falsato non con internet ma con le cose. In altri termini, non solo nel mondo virtuale ma normalmente ci stiamo abituando a parlare senza dire cose, dicendo niente. E le parole che se ne vanno in giro da sole finiscono per fare malissimo. Prendiamo un posato signore di mezza età, raffinato e mai volgare, che non usa smartphone e inorridisce ancora per gli sms, e che forse non riuscirà a resistere alla prematura scomparsa dell’amato fax. Prendiamo il tipico signor Francesco Rossi, anzi Rossi Francesco.

Ecco, Rossi Francesco condivide con chi twitta ingiurie il medesimo modo di usare la lingua. Perché il signor Rossi, quando parla, non dice delle cose: dice quello che gli va. Proprio come il suo discendente Francky (Frankie) Allthegirlsarevaccs Red. Quando parla, ci tiene a esprimere la sua opinione, non ad arrivare alla verità. Quando gli chiedi qualcosa, ti spiattella come la pensa lui, non come stanno le cose. Quando ti dice no, non è perché quella cosa non è buona ma perché quella sera è arrabbiato; quando ti sorride è perché si sente di buon umore. Fin da piccolo lo hanno addestrato a esporre nei temi le sue opinioni su qualsiasi fatto sociale, anche sui camaleonti in Bangladesh. È convintissimo che una poesia esprima quello che si sente dentro, non quello che si vede fuori. Insomma, è una vita che non parla per andare incontro alle cose, ma per dire quello che gli pare: lui è un tipo schietto, quando una cosa la pensa la dice pure. Deve liberarsi di tutto quello che gli viene da dentro: questo modo di parlare quale altra azione ricorda? Il signor Rossi parla per istinto.

E ora il suo omonimo duepuntozero vede che Facebook usa esattamente lo stesso verbo che a scuola quell’altro usava per Aristotele e Kant: «A cosa stai pensando?». E lui pensa appunto che «Jane ha fatto sesso a tre con Mark e Sean nella palestra del campus», che «Vicky dice di non essere vergine ma in realtà si fa la sua migliore amica» eccetera: di questo trabocca il suo pensiero. Se canta, sfoga il suo istinto sentendosi palpitare dentro tante emozioni e avendo di fronte un pubblico, non indica delle cose che quelle persone vedono, divenendo la loro voce: canta di fronte a loro, non con loro.

Se fa l’insegnante, non pensa di entrare in rapporto con parole eccezionali e con occhi pieni di domanda: esegue scrupolosamente la sua performance per sentirsi a posto con la propria coscienza. Non somiglia a una nonna, che prepara proprio quella torta che piace al suo nipotino, ma a una brava pasticcera in cerca di farsi un nome, che esegue con senso del dovere una ricetta che deve piacere ai bambini. Ecco, la nonna preparando quella torta entra in rapporto con suo nipote. Ma Francky Red, scrivendo (certe cose?), entra in rapporto con qualcuno? Lo schermo lo protegge, gli impedisce non solo di vedere l’altro ma di percepirne la effettiva presenza in questo pianeta.

Quei non detti che un tempo rimuginava da solo ora li può scrivere, come se l’altro (che, lo sa benissimo, esiste, e li leggerà), non li dovesse venire a sapere mai: ma nessun telegiornale ti fa pregare per una ragazza che muore durante il viaggio di nozze; nessun libro di storia ti fa piangere per almeno uno dei milioni di morti delle guerre mondiali; nessun giornale, mentre sentenzia, sputtana e condanna, ti fa rendere conto che stiamo pur sempre parlando di esseri umani, che leggeranno anche loro, come leggeranno i loro figli, e le loro mamme. Così chi scrive su Facebook non parla con nessuno: lancia a message in a bottle. Dice a tutti che sta male, ma in realtà lo dice a nessuno. Se ha bisogno di dirlo a tutti, è perché non ha nessuno a cui dirlo. Eppure, quando si trova online, viene sommerso dai “cm va?”. Glielo chiedono l’ex compagno dell’asilo nido e il vicino di ombrellone di otto estati fa. Ma quel “cm va?” non è rivolto a lui: se online non ci fosse Francky, lo chiederebbero a Scarlet o a Mark. È il “cm va?” dei pieni di noia, in contatto con miriadi di persone, e in rapporto con nessuno. Che parlano non come mangiano ma come chattano. Un po’ come quegli insegnanti che si ricordano di chiedere “cm va?” a Rossella e a Marco soltanto il 7 giugno, quando non sanno proprio che altro dire e ne hanno in classe solo due, e che per tutto l’anno dicono “buongiorno” quando entrano in classe, ma senza voler dire niente, e senza augurarlo a nessuno in particolare.

Nel racconto pavesiano Suicidi – e di questo, purtroppo, stiamo parlando – il protagonista pensa alla sua fidanzata come a quella che, le «pene passate, me le estraniava un poco»: «Carlotta mi serviva da pubblico. Parlavo per mio conto in quelle sere». Anche la persona più cara può diventare il nostro «pubblico». O addirittura una presenza di troppo, come per il Narciso di Gaber, che durante un rapporto sessuale si eccita così tanto per la propria potenza che, quando alla fine si accorge di lei, non si trattiene: «Ma chi è questa qui? da dove viene? ero qui che mi amavo!». 

I cyberbulli sono alla radice dei cybersegaioli: che si sfogano, anziché nel loro bagnetto, in mondovisione. Ma lo fanno perché qualcun altro li ha convinti che il tribunale supremo dell’esistenza non è mica Dio, che ti vede anche (o soltanto, a seconda dei punti di vista) nel bagno e nell’urna: ciò con cui l’io è in rapporto profondo si chiama opinione pubblica. Al cospetto di questo nuovo dio non ci sono virtù e peccati: solo consensi o sputtanamenti. E quando ha fatto cambio di dèi, Rossi Francesco ha fatto dedurre a Francky Red che è dal nuovo dio che dipende una vita ben vissuta. E perciò anche una disperazione fatale.