“In fondo, il fatto che qualcuno sia un forte lettore, di per sé, dimostra solo che sa leggere”: così il filologo Dino Baldi, di recente, a Radio 3, ha cercato, un po’ provocatoriamente, di spezzare lo schema per cui da tempo ormai si parla di lettura e lettori in termini essenzialmente quantitativi, sicché chi in un anno si leggesse, ad esempio, tutta la Bibbia e solo quella risulterebbe “lettore debole” rispetto a chi nello stesso arco di tempo si  spazzolasse venti gialli. E occorre recuperare un minimo di senso critico e riconoscere che in molti casi ci sono milioni di cose da fare migliori della lettura, da una passeggiata a una conversazione a una torta. La lettura, naturalmente, non vale di per sé, né è di per sé positiva l’abbondanza di volumi: quante volte aggiungiamo a quelli in nostro possesso un libro in più per curiosità superficiale o addirittura, e lo sappiamo, per ritardare il momento in cui affrontare le letture “vere”, che ci aspettano da anni!



Anche la lettura può essere solo un vizio, non più nobile di altri, quando leggiamo da consumatori, del nostro tempo e del libro. La considerazione non implica, a questo livello, giudizi di valore su ciò che leggiamo, ma riguarda piuttosto il nostro atteggiamento: si può leggere da consumatori anche Omero. Probabilmente questo è un punto davvero difficile da aggredire per noi oggi, tanto profondamente intrisi dell’antropologia del consumatore da non avvertirne spesso neppure più il carattere sinistro, da non provarne repulsione. E forse si annida da queste parti anche la ragione per cui il discorso sul leggere diventa così in fretta discorso sul mercato editoriale o sui supporti vecchi e nuovi: non che questi siano problemi privi di importanza e fascino, ma sono un’altra cosa.



E dunque, abbiamo bisogno di leggere? Prescindendo dall’informazione e dagli scritti funzionali, naturalmente. Abbiamo bisogno di leggere letteratura? Ha senso proporla ai ragazzi, addirittura anche in tempi di magra, investire denaro allo scopo?

In fondo, la lettura  è rimasta per millenni un’attività del tutto elitaria, al suo interno la letteratura anche di più. Solo un pugno di anni ci separa dai tempi in cui sotto i nostri cieli si viveva e si moriva, in maggioranza, analfabeti o quasi. È sensato ritenere che tante generazioni siano state per questo deprivate di qualcosa di fondamentale? E dunque, perché accanirsi? Perché non insegnare solo ciò che è utile per vivere la vita concreta e lavorare e non consegnare il resto all’ambito indiscutibile dei gusti e delle scelte personali? Perché imporre a scuola la letteratura rovinandola, come non di rado sostengono scrittori e poeti?



Pensiamo per un attimo alla condizione di un contadino di sessant’anni fa. Non leggeva nulla o  quasi. Ma la sua vita era per questo priva di letteratura, intendendo il termine in senso lato come ambito di elaborazione della dimensione simbolica ed estetica? No di certo: aveva i racconti orali, il patrimonio delle fiabe, le preghiere, la liturgia. La materia psichica profonda, con l’angoscia connessa, era rifluita in narrazioni plasmate dal lavorio dei secoli, ordinate e insieme insensate, ordinate come la ragione, insensate come il fato e le passioni. Epifanie del magma di tragico e comico dell’esistenza che così poteva essere detto, e guardato, e sopportato. E poi la liturgia, il  livello estetico, percepibile, presente, di un mistero positivo.

Ebbene, se abbandonassimo l’ambizione (non priva di pecche e aspetti discutibili, per carità) di una diffusione capillare della letteratura attraverso la scuola, non torneremmo a questo. Tutto questo è perduto per i più, almeno nel segmento della storia in cui siamo capitati. Il nostro sarebbe un viaggio verso l’azzeramento di qualunque linguaggio simbolico condiviso. Del linguaggio simbolico efficace, s’intende, di quello che non solo dice ma fa, che è un dire che fa.

La paura dell’orrore e della morte, l’enigma del caso, la pressione incomprensibile delle pulsioni, l’odio, l’amore: tutto ciò gli uomini di ogni civiltà hanno sottoposto ad instancabile elaborazione simbolica che, anche nelle forme popolari, aveva dietro a sé lo spessore della vita di generazioni, secoli di esperienze sedimentate. Oggi quello spessore è per noi attingibile solo attraverso i capolavori della letteratura. Non si tratta di stilare classifiche, di stabilire che cosa stia dentro e che cosa fuori e di passare quindi a discettare (altro argomento sempre di moda) sulla legittimità della distinzione tra letteratura alta e letteratura di consumo; diamo pure per scontato che nella farragine difficilmente inventariabile di tutto ciò che si scrive e si vende vi sia molto che abbia lo spessore di cui si è parlato. Non è questo il punto: l’essenziale è che alle giovani generazioni non venga a mancare nutrimento adeguato, ed è quindi inevitabile che le nostre preoccupazioni siano indirizzate in primo luogo a farle partecipi delle opere che di sicuro hanno già dimostrato di avere la forza per sostenere la vita dei singoli e il cammino di una civiltà. 

In un certo senso, non è il caso di enfatizzare troppo la questione della comprensione. In parte perché il fatto di sottrarsi ultimamente a qualunque pretesa di comprensione completa è proprio ciò che rende tali i capolavori; in parte perché i sentieri che essi tracciano dentro di noi sono sempre intricati e misteriosi, soprattutto carsici: in ogni momento della nostra esistenza ci ritroviamo a tirar fuori dal nostro tesoro cose nuove e cose antiche, che a stento ricordiamo quando e come vi abbiamo messo e che comunque appaiono diverse, o meglio “appaiono” veramente per la prima volta.

Del resto, chi ha capito l’Ave Maria quando l’ha imparata? Anzi, chi ha capito l’Ave Maria?

La prima cosa, quindi, quella essenziale, è che l’opera arrivi. Quella che chiamiamo spiegazione non può essere che un’umile introduzione, un cortese e premuroso socchiudere la porta. Ma poi è dell’opera che dobbiamo fidarci, non delle nostre capacità didattiche. In questo senso bisogna essere insegnanti in senso strettamente letterale: indicare, e lasciare la scena ai veri attori, l’opera e l’allievo. Poi va da sé che questo “indicare” sarà tanto più efficace quanto più trasparente del proprio amore per ciò che si propone, quanto più l’adulto saprà comunicare la sua coscienza che ciò che sta “indicando” lo supera, che non ne è padrone.

Probabilmente è questo il punto su cui può essere aggredita l’antropologia del “consumatore” e anche quella, non meno devastante se diviene esclusiva, dell’utilizzatore, per approdare a quella, richiamata anche dai documenti del Concilio Vaticano II come scopo primario dell’istruzione, del contemplatore.

Ne La scuola raccontata al mio cane Paola Mastrocola si domanda di che cosa mai parleranno tra loro gli uomini della prossime generazioni, privi di una eredità letteraria condivisa.  Condivideranno, come già avviene, le vicende delle serie televisive globalizzate (ormai anche confezionate direttamente per il computer), sempre più belle e non sempre banali, a stare al giudizio di critici autorevoli. Mettiamo pure che così sia risolto il problema della conversazione. Questi prodotti però non hanno ancora dimostrato alla prova dei fatti e del tempo di saper svolgere la funzione fondamentale che Aristotele assegnava, ad esempio, alla tragedia attica (non a caso una forma, anche quella, di “istruzione pubblica”), di metterci in grado di sostenere la coscienza del male senza scardinare la convivenza ma anzi rafforzandola. Magari lo dimostreranno in futuro, e ne saremo lieti, ma in questo campo non si può rischiare.

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