La mostra presente al Meeting sui martiri della chiesa ortodossa (“La luce splende nelle tenebre. La testimonianza della chiesa ortodossa russa negli anni della persecuzione sovietica”) offre a chi insegna ciò che normalmente gli manca: la conoscenza dei fatti unita alla commozione che deriva dalla percezione per come si sono verificati. Una percezione tangibile, c’è poco da discutere.
Dunque, tutto ruota attorno al tema del potere e della santità. Nella storia ci può essere un potere che assume forme assolutistiche e che tuttavia si misura con la storia degli uomini, tentando di rispondervi; ci può essere un altro potere che non si misura affatto perché proclama come cifra della propria natura la fine della storia e di ogni possibile interpretazione di essa (i filosofi, diceva Marx hanno interpretato il mondo: ora si tratta di trasformarlo). Cambiare la storia senza storia, cioè senza riconoscere alcuna tradizione alle spalle è un’operazione bestiale. Esattamente come bestiale è stato il comunismo realizzato, nelle forme del leninismo o dello stalinismo (beninteso realizzati, seppure per terribili approssimazioni). Dove non c’è ideale che guida le azioni dell’uomo, resta la lotta politica interessata e vendicativa, mossa unicamente dal programma del partito unico.
Nella Russia leninista e staliniana degli anni Venti e Trenta del secolo scorso, nella Russia sovietica, l’abolizione della trascendenza non fu un incidente, ma un programma. Un pannello della mostra riporta la seguente frase di Lenin inviata ai membri del partito durante la tremenda carestia degli anni 1921-1923: “È proprio ora e solo ora, che nelle località affamate si mangiano gli esseri umani… che noi possiamo operare la confisca dei beni della chiesa con energia e furia sommamente implacabili”. E questo ordine determinò la “lunga e oscura notte” della chiesa ortodossa russa, a cui fece cenno il patriarca Tichon poco prima della sua morte avvenuta nel 1925.
Nella mostra si capisce bene che il martirio subìto nasce da un’altra logica, che non quella della massificazione. Il terrore è proclamato anonimamente dal partito al potere, la persecuzione si accetta personalmente. Si decide nella propria libertà di restare fedeli a Cristo; se non si guarda la croce personalmente si fugge o ci si rifugia nell’apparato (furbescamente i bolscevichi organizzarono nel 1922 uno scisma nella chiesa russa per creare un filone, quello dei cosiddetti innovatori, posto sotto l’egida del governo rosso, che poteva fornire riparo dalla furia demolitoria).
Ma il popolo nella sua maggioranza era con il patriarcato, restaurato proprio nel 1917 e affidato in prima battuta proprio a Tichon, innalzato all’onore degli altari della chiesa ortodossa russa nel 1989: da allora Santo Patriarca di Mosca e di tutte le Russie.
Furono anni, anzi decenni di sofferenze, fucilazioni, distruzioni, dispersioni nei Gulag. Fino ai non lontani anni Sessanta, quelli in cui al potere in Urss c’era Cruscev. Il potere sovietico continuava a considerare i credenti come controrivoluzionari, la Chiesa che legge nel profondo delle pieghe della storia considera quelli che muoiono a motivo della fede come martiri.
La mostra apre ad una prospettiva di straordinaria novità, quella della chiesa ortodossa che risponde alla secolarizzazione con la canonizzazione dei suoi martiri. Compresi i Romanov: Nicola II e la sua famiglia, e con loro la servitù, massacrati a Ekaterinenburg nel luglio del 1918. La mostra spiega che furono innalzati non per il loro ascendente sul popolo, ma perché accettarono santamente il martirio. Cioè la verifica della fede alla prova della storia.