La formazione professionale può davvero essere una risposta concreta e strutturale per ridurre il disagio sociale dei giovani, la dispersione scolastica, la disoccupazione giovanile? Al contempo può aiutare a ridurre il mismatch tra domanda e offerta di lavoro, può contribuire a migliorare la produttività delle imprese e la loro capacità di innovazione?
A queste domande occorre rispondere seriamente e concretamente. Da molti anni si parla del fatto che nel nostro paese si fa poca formazione, che c’è poca alternanza tra sistemi educativi e sistema delle imprese, ma al momento di definire una strada per superare questo problema, da tutti riconosciuto come centrale, le soluzioni diventano fumose e inconsistenti.
Probabilmente il motivo principale di questa scarsa capacità a individuare strade e soluzioni concrete risiede ancora nel pregiudizio ideologico per cui è positivo e pedagogico tutto ciò che nasce dall’istruzione teorica, mentre dall’esperienza del fare, dal mettere le mani in pasta e dallo stesso lavorare non può nascere nulla di veramente educativo per l’uomo. Si tratta in sostanza di una concezione del lavoro come condanna e non come opportunità di crescita integrale della persona. Eppure già Mounier ammoniva che “lavorare è fare un uomo al tempo stesso che una cosa”. Questo pregiudizio ha portato come noto alla licealizzazione di tutti i percorsi educativi ed è al contempo alla radice dell’insuccesso di tutti i tentativi di dar vita a un vero sistema duale che faccia dell’alternanza il suo perno. Lo stesso scarso successo delle politiche sull’apprendistato trova qui il suo fondamento più o meno esplicito.
In questo quadro generale però non sono mancati gli uomini che hanno saputo sviluppare una cultura diversa, in cui l’unitarietà tra studio e lavoro faceva parte dello stesso percorso educativo. Il fondatore della formazione professionale don Giovanni Bosco, l’8 febbraio 1852, firma il primo contratto di apprendistato tra uno dei suoi ragazzi della formazione professionale e un’impresa. Da quel giorno a oggi è cresciuta una formazione professionale dedicata ai giovani che dall’Italia si è espansa nel mondo intero. Una formazione che ha saputo sempre crescere e rinnovarsi e che affonda le sue radici in una sussidiarietà mossa e alimentata da una passione ideale.
L’attuale sistema di formazione professionale iniziale è figlio di questa storia e accanto agli enti storici si sono via via affiancate nuove e innovative esperienze. E’ un patrimonio presente a macchia di leopardo nel paese, strutturato soprattutto in alcune regioni del nord, ma che ha la forza e le competenze per essere esteso all’intero paese. Un patrimonio che la cosiddetta rifoma Moratti, portata poi a compimento dai suoi successori, ha valorizzato rendendo la formazione professionale un percorso ordinamentale al cui interno si può assolvere l’obbligo di istruzione.
I cosiddetti percorsi di qualifica e diploma professionale che ne sono scaturiti hanno incontrato da subito il favore di tante famiglie e di tanti giovani; le statistiche dimostrano che laddove tali percorsi sono presenti diminuiscono la dispersione e la disoccupazione giovanile e molte imprese mostrano di apprezzare le persone formate e educate inserendole nei propri organici.
Questi giovani non solo non si perdono, ma recuperano la stima di se stessi e riscoprono quella curiosità dell’apprendere e quel piacere del fare che sono anche il motore dell’innovazione. Non dimentichiamoci che il boom italiano deve alla cultura e alla formazione tecnica larga parte del suo successo e che le innovazioni incrementali che hanno permesso al nostro paese di diventare una delle potenze mondiali hanno in quella cultura e in quell’educazione il loro fondamento. Il sistema della formazione professionale è nel nostro paese (più che in quello di molti nostri competitors) ancora più essenziale se si desidera strutturare un vero sistema duale; infatti la piccola dimensione delle nostre imprese (media 3,9 addetti contro ad esempio i 12 della Germania) implica che il sistema delle imprese non può assolvere da solo al compito di garantire un’alternanza che sia al contempo attività lavorativa e attività di apprendimento e di crescita delle competenze.
Se queste considerazioni valgono allora pare necessario aprire un vero confronto tra istituzioni e sistema formativo senza reticenze e senza forzature. Ancora le recenti vicende dell’art. 6 del decreto del fare, poi ritirato dal governo, mostrano che questo confronto leale e aperto non è ancora adeguatamente in atto. Questo passo è dunque necessario perché è giunto il momento di invertire con coraggio il trend per cui in Italia si spendono ingenti quantità di denaro per politiche assistenziali e si continua a non investire adeguatamente sull’educazione e sulla preparazione al lavoro dei giovani. E’ una visione miope, tipica dei paesi incapaci di guardare al proprio futuro, che difendono con i denti privilegi che non possono più permettersi. L’esperienza di altri paesi, anche europei, mostra che investire sulla formazione professionale, dare vita a un vero sistema duale, è una risposta strutturale perché abbatte la disoccupazione giovanile, migliora la produttività dell’impresa, aumenta la capacità di innovare e riduce la spesa pubblica improduttiva.
Ma la sfida non è solo alla politica o alle istituzioni, è a ciascuno di noi. Abbiamo il coraggio di guardare con fiducia ai nostri giovani e ai nostri figli, usciamo dagli stereotipi del liceo e dei colletti bianchi, smettiamo di contrapporre impresa, scuola e formazione professionale, guardiamo con stima e fiducia a chi decide di cimentarsi con un mestiere, sosteniamo le esperienze di alternanza tra scuola e lavoro sin dall’adolescenza, favoriamo la possibilità di esperienze all’estero.
Insomma sosteniamo il desiderio e la passione che c’è nel cuore dei nostri adolescenti, non soffochiamola con il nostro scetticismo; è questa la via per lanciarli nella sfida della vita e del mondo del lavoro. Invece di continuare a fare discorsi astratti sul fatto che saranno più o meno ricchi dei loro genitori, sosteniamoli nel loro strumentarsi per affrontare la realtà, perché peggio di un lavoro precario c’è la precarietà di una vita senza speranza e senza significato.