Il reclutamento dei docenti? “Dobbiamo superare il transitorio ed avviarci verso una soluzione a regime. Tutelando anche i più giovani”. Le paritarie? “Occorre una stabilizzazione delle risorse a sostegno delle scuole paritarie in un’ottica pluriennale. Ma nell’invarianza della spesa pubbica”. Questi e altri i temi toccati da Maria Chiara Carrozza, ministro dell’Istruzione, in un’intervista a ilsussidiario.net, alla vigilia dell’appuntamento, previsto per oggi, del ministro con il Meeting di Rimini.



Ministro, rispondendo alla Camera ad una interrogazione sui Tfa ordinari, lei ha dichiarato di aver “già trasmesso al ministro dell’Economia e delle finanze e al ministro per la Pubblica amministrazione e la semplificazione la richiesta di autorizzazione a bandire il prossimo ciclo di tirocinio formativo attivo ordinario per oltre 29mila posti” e di confidare “in un rapido avvio del percorso”. Inoltre stanno per partire i Pas (Percorsi abilitanti speciali) per i giovanti insegnanti. Come intende procedere a ridisegnare la formazione iniziale, dopo la faticosa chiusura del primo Tfa?
Il percorso di formazione e reclutamento degli insegnanti ha subito negli anni continui cambiamenti e modifiche che hanno impedito il consolidamento del sistema. In particolare, la difficoltà principale è nel conciliare le esigenze contrapposte di chi, dopo anni di insegnamento, aspira a essere stabilizzato, e dei più giovani che hanno seguito un percorso di formazione duro e selettivo. Dobbiamo superare il transitorio ed avviarci verso una soluzione a regime. Penso anche a questo quando dico che è giunto il momento di una Costituente della scuola, dove insegnanti, dirigenti, lavoratori della scuola discutano insieme agli studenti e ai genitori del futuro senza limitarsi alle esigenze della singola categoria, che pure sono importanti. Per me invertire la rotta rispetto agli anni precedenti significa anche questo, tornare a immaginare un vero e proprio progetto culturale per la nostra scuola.



Come intende procedere a definire un nuovo sistema di reclutamento del personale docente? Sarà sufficiente insistere sullo svuotamento delle graduatorie ad esaurimento senza parallelamente attivare nuove forme concorsuali? Nel caso, di che tipo?
Stiamo lavorando a definire un percorso per il medio periodo, consapevoli della necessità di tutelare sia chi nella scuola ha già lavorato, come ho detto in precedenza, per tanti anni sia i più giovani che si affacciano all’insegnamento. Nel lungo periodo penso invece che il sistema di reclutamento debba essere basato su formazione e selezione mediante concorso. 



Nella seduta del Consiglio dei Ministri di giovedì 8 agosto, a seguito del parere espresso dalle Commissioni parlamentari e dal Consiglio di Stato, è stato approvato in via definitiva un Regolamento che proroga fino al 31 dicembre 2014 il blocco della contrattazione economica e degli automatismi stipendiali per i pubblici dipendenti (oltre tre milioni di persone), scuola compresa. Non crede che gli insegnanti non meritassero questa ulteriore penalizzazione?
Sono consapevole, come tutto il Governo del resto, che è stato chiesto un ulteriore sacrificio ai dipendenti pubblici, che in questi anni sono stati molto penalizzati pur dando tanto ogni giorno al nostro Paese. Per quanto riguarda la scuola occorre lavorare affinché si trovino, pur salvaguardando le esigenze di finanza pubblica, risorse per la copertura necessaria a garantire le progressioni economiche del personale della scuola. 

Per quanto riguarda la scuola, in particolare, il blocco dei rinnovi contrattuali riguarda soltanto la parte economica, mentre per la parte normativa si dovrebbero avviare delle trattative. Può anticipare qualche elemento di questa nuova configurazione del docente?

L’apertura della discussione sul contratto deve essere anche il momento per l’avvio di un percorso ed un ripensamento complessivo sul ruolo dell’insegnante che valorizzi l’impegno individuale, la capacità di lavorare in gruppo e l’aggiornamento. 

Per combattere la crisi occupazionale dei giovani occorre ripartire da un rapporto organico tra scuola, formazione professionale e mondo del lavoro. La legge che prevedeva la costruzione di un legame stabile attraverso la costruzione di poli tecnico-professionali che fine ha fatto?
Il rapporto tra scuola, università e mondo del lavoro è fondamentale. Sono troppi i giovani che concludono il loro percorso formativo senza aver mai fatto uno stage o un’esperienza diretta nell’amministrazione o nelle imprese. Nel Dl Lavoro abbiamo potenziato i tirocini curriculari degli studenti universitari incentivando gli atenei che li attivano. Quanto alle superiori, stiamo attivando un percorso di valutazione dell’esperienza degli Its proprio per consolidarla e far partire interventi di potenziamento delle migliori esperienze. Il sottosegretario Toccafondi si sta occupando di questo tema, e ho voluto dare una delega proprio per sottolinearne l’importanza.

In Germania il sistema duale è stato la chiave per combattere la disoccupazione giovanile, le regioni italiane dove esiste una buona formazione professionale hanno un tasso di Neet molto più basso. Che cosa intende fare per mettere a regime e rendere stabile la proposta di formazione professionale in Italia?
Stiamo lavorando su questo tema con i ministri Giovannini e Trigilia prendendo a modello esperienze straniere in questa direzione, in particolare quella tedesca che favorisce l’alternanza scuola lavoro e una più efficace immissione nel mondo del lavoro. 

Ci sono un milione di famiglie che in Italia pagano la scuola due volte: quella statale che non frequentano e quella paritaria che hanno il diritto frequentare. Questo governo come intende aiutarle?
Noi ci stiamo muovendo in linea con la legge Berlinguer per un sistema che includa le scuole paritarie come parte integrante del sistema nazionale di istruzione pubblica. Auspico un meccanismo che, pur nell’invarianza della spesa pubblica, consenta una stabilizzazione delle risorse a sostegno delle scuole paritarie in un’ottica pluriennale.

In un’intervista rilasciata prima della sua nomina a ministro, lei lamentò l’eccesso di burocrazia che grava sull’università italiana. Essa si è moltiplicata anche per volontà dei suoi immediati predecessori: ora che lei ha il potere di decidere in proposito, che cosa intende fare?
La semplificazione è una forma di innovazione. Se vogliamo essere all’altezza delle sfide europee, dobbiamo innovare semplificando. Il sistema universitario è regolato da una stratificazione caotica e spesso irrazionale di norme succedutesi nel corso degli anni. Due sono gli obiettivi: coordinare e semplificare. Riguardo al primo punto, c’è la necessità impellente di lavorare a un nuovo Testo Unico che raccolga in modo ordinato le norme e cancelli articoli, leggine, commi, laddove si hanno sovrapposizioni o, addirittura, contraddizioni. Quanto alla semplificazione vera e propria, essa va avviata subito sulle norme della didattica, sui bandi per la ricerca di base, sulle regole per i dottorati, sulle università telematiche. Soprattutto deve essere consentito alle università e ai centri di ricerca più meritevoli di fruire di percorsi agili e di un’autonomia ampia per continuare a crescere e a competere. A questo scopo ho istituito apposite commissioni che stanno ultimando i propri lavori in questi giorni. Ma la madre di tutte le semplificazioni è quella che dovrebbe consentire, con regole facili e rigorose, l’ingresso dei giovani nel mondo della ricerca. Un obiettivo ambizioso al quale sto lavorando.

In Italia vi sono voci autorevoli che affermano che vi sono troppe università, troppi corsi di laurea, troppi docenti e troppi studenti, e altre voci che sostengono il contrario. Qual è la sua posizione in proposito?

 

Le cifre assolute non dicono nulla. È noto che, confrontato con quello di altri paesi, il nostro sistema non è affatto quello più ricco. Ma – queste sono le cifre che contano − il numero di laureati è ancora troppo basso rispetto all’Europa; la classe docente si è depauperata ed è oggi la più vecchia del continente. La vera questione è l’efficienza. Un sistema pubblico dell’istruzione deve essere diffuso ma anche efficace. Il recente rapporto dell’Anvur ha indicato che esistono squilibri che vanno corretti ed eccellenze che vanno premiate. Lo faremo già con la distribuzione delle risorse per il 2013 (sul finanziamento ordinario e sulla programmazione triennale). Ma senza investire nel diritto allo studio e nel merito per gli atenei ogni intervento rischia di essere isolato: nessun reclutamento dei giovani, pochi studenti immatricolati. Inoltre c’è bisogno di un raccordo territoriale che aiuti a vincere gli squilibri oggi esistenti in Italia in un’ottica d’integrazione e ottimizzazione fra atenei ed enti di ricerca. 

La Raccomandazione del Parlamento europeo del 15 febbraio 2006 chiede al n. 4 che alle Università sia consentito di scegliere un’agenzia di accreditamento “corrispondente alle loro necessità e caratteristiche”. Ritiene che tale pluralismo sia auspicabile anche in Italia o che sia preferibile la via finora seguita di un’agenzia unica di nomina governativa?
Il percorso che ha condotto alla creazione dell’Agenzia unica di accreditamento (l’Anvur) è stato lungo e faticoso. Ma ampiamente condiviso. Ci sono voluti ben 5 anni per avviarne i lavori e, davvero, vorrei evitare il tipico male italiano di affondare una cosa appena nata. Esistono naturalmente luci e ombre, complessità da sfrondare, competenze da chiarire e regole da semplificare. Ma il già ricordato rapporto sulla Valutazione della Qualità della Ricerca (Vqr) che abbiamo presentato lo scorso 16 luglio dimostra che siamo sulla buona strada. Peraltro, l’esistenza di un sistema pubblico relativamente omogeneo (a differenza di quanto avviene in altri paesi europei) rafforza l’idea che esso venga valutato da un’unica agenzia, così come un unico ministero vigila e delibera sulla ripartizione delle risorse.

Il Rapporto del giugno 2013 del Gruppo di lavoro sulla modernizzazione dell’istruzione superiore in Europa raccomanda che venga riequilibrato il rapporto tra ricerca e insegnamento nelle università, che ora è nettamente a sfavore del secondo, per esempio nelle politiche di reclutamento che praticamente ignorano le capacità didattiche dei futuri docenti. È d’accordo con tale diagnosi? Se sì, quali provvedimenti pensa che siano più urgenti in Italia?
Ho letto quel rapporto e ne condivido le linee essenziali. Tuttavia bisogna intendersi. Nelle procedure di reclutamento delle singole università la didattica è contemplata dalla maggior parte dei regolamenti che gli atenei si sono dati in autonomia. Dunque non è vero che la didattica è fuori dal reclutamento. Piuttosto ritengo che vada approfondita la politica di incentivazione della buona didattica. A questo scopo sono stati distribuiti i fondi per l’incentivazione (50 milioni di euro nel solo 2013) che le università devono destinare a chi dei docenti presenti buone prestazioni anche (o solamente) didattiche, magari sulla base della valutazione degli studenti. Stiamo poi studiando un nuovo sistema di incentivazione della qualità della didattica che faccia riferimento alla ripartizione del finanziamento ordinario e che andrà a regime nel 2014.

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