In un nostro precedente articolo avevamo posto l’accento sulla necessità che il Tfa ordinario potesse proseguire il suo cammino. È nota la notizia cheil ministro dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza, rispondendo alla Camera ad una interrogazione sui Tfa ordinari, ha dichiarato di aver «già trasmesso al Ministro dell’economia e delle finanze e al Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione la richiesta di autorizzazione a bandire il prossimo ciclo di tirocinio formativo attivo ordinario per oltre 29mila posti» e di confidare «in un rapido avvio del percorso».
Non possiamo che rallegrarcene, anche se ciò che il ministro ha detto su queste pagine – “il percorso di formazione e reclutamento degli insegnanti ha subito negli anni continui cambiamenti e modifiche che hanno impedito il consolidamento del sistema”; “dobbiamo superare il transitorio ed avviarci verso una soluzione a regime”, pur essendo condivisibile, non dissolve gli interrogativi, anzi ne alimenta di nuovi.
Occorre anche rilevare che per ora non si tratta di un vero e proprio “avvio”, ma di una richiesta di autorizzazioni al Mef e al ministero della Pubblica amministrazione: confidiamo comunque che sia l’inizio di un cammino, anche se probabilmente i tempi per la pubblicazione dei bandi non saranno brevi.
Inoltre, con il DM n. 706 del 9 agosto 2013 il Miur ha dato l’avvio ai primi corsi di formazione sul sostegno secondo le disposizioni dell’art. 13 del DM n. 249/2010. In questo modo, il “ciclo” del Tfa è completo, con il Tfa ordinario, i Pas (il cosiddetto Tfa speciale) e i corsi per l’abilitazione al sostegno.
Nel nostro precedente articolo, però, avevamo sottolineato che, se lo scopo primario del proseguimento del Tfa era la cura dei giovani neolaureati, un secondo – e fondamentale – motivo consisteva nel rendere ordinario il percorso, così da poterlo capitalizzare, per cercare di arginare gli errori e i disallineamenti che erano emersi durante il primo anno.
Il cammino è stato tortuoso a causa della tempistica che non è stata appropriata per uno svolgimento ordinato del tirocinio formativo attivo, e che ha creato non pochi disagi ai corsisti, sottoposti ad un vero tour de force. Se è vero che il cuore del Tfa è comunque stato salvato – ovvero il tirocinio nelle scuole – è pur vero che le inefficienze e le storture anche strutturali del Tfa non sono state di poco peso.
La ripresa del Tfa ordinario dovrebbe vedere le università riflettere insieme ai tutor coordinatori e ai tutor accoglienti su questi nodi.
Innanzitutto, istituendo e rendendo effettivi i lavori dei Consigli di corso di tirocinio: molte università non li hanno mai attivati, altre li hanno declassati quasi ad organi consultivi, abilitati solo a ratificare decisioni prese in altre sedi. Perché? Perché a decidere, di fatto – visto anche il vuoto creatosi nell’interregno tra le prove preselettive e l’insediamento dei tutor coordinatori – sono stati solo gli atenei, che, ovviamente, hanno potuto impostare il percorso senza avere il parere dei tutor.
Invece ci pare che questo organo debba assolutamente essere attivato, e debba acquisire il parere dei tutor coordinatori, degli studenti ma anche dei rappresentanti dei tutor di scuola (benché il DM 249/2010, art.10, comma 4a preveda solo la presenza di due dirigenti scolastici o coordinatori didattici), perché i docenti accoglienti sono stati il vero motore del tirocinio.
Tra l’altro, se è vero che alcune università hanno – almeno simbolicamente – erogato un compenso forfettario alle scuole, molte altre non lo hanno fatto. Al di là dell’entità del contributo versato, ci sembra che questa questione sia significativa: come è possibile che gli organi accademici introitino in media 2.500 euro per corsista, e non riescano neppure a fare quelle poche economie che permettano di ricompensare singolarmente i tutor di scuola? I quali si sono dati veramente da fare, hanno speso in molti casi molte ore per parlare, discutere, aiutare il tirocinante. Lo avrebbero fatto probabilmente anche sapendo di non avere alcun contributo: ma non ci sembra né moralmente né deontologicamente corretto, che non ci sia una retribuzione. Anche perché il DM 93/2012 (art 8, comma 3) prevede esplicitamente che gli atenei riconoscano “alle istituzioni scolastiche una quota del contributo di iscrizione ai relativi percorsi”, anche se non ne definisce l’importo.
Analogamente si deve dire per i tutor coordinatori, che – a differenza di qualche lodevole eccezione – non hanno beneficiato di alcun compenso per i laboratori che hanno tenuto, anche spontaneamente, per rispondere alle esigenze dei corsiti. In alcuni casi non è stato corrisposto loro nulla, neppure per i lavori in Commissione di esame di abilitazione!
Non è – evidentemente – questione di soldi, ma di dignità e di considerazione del lavoro dell’insegnante ed è faccenda legata all’impostazione del Tfa: è possibile che il mestiere di insegnante goda di così bassa stima sociale che, neppure quando devono insegnare il proprio lavoro, i docenti hanno la possibilità di farlo senza dover mettere in conto spese per carta, telefonate, benzina che nessuno rimborserà, e comunque in subordine rispetto agli insegnamenti teorici accademici?
Questa disistima è evidente anche con i Pas. Infatti i docenti aspiranti vengono sollevati dalla frequenza del tirocinio, perché si riconosce che nei loro anni di insegnamento lo hanno già espletato: vero! Dovranno frequentare solo i corsi teorici: ma se hanno già insegnato per almeno tre anni, e se vengono considerati capaci di farlo, non dovrebbero già essere esperti in tutto? Se “sanno” stare in classe, se “sanno” tenere gli alunni, perché dovrebbero seguire dei corsi? Si potrebbe obiettare: tutti i docenti sono chiamati all’aggiornamento in servizio. Giusto! Ma i corsisti dei Pas non seguono dei corsi di formazione, ma dei Percorsi abilitanti speciali: perché per abilitarsi è necessario “soltanto” sapere la teoria? Infatti i Pas prevedono la frequenza delle medesime ore teoriche dei colleghi che hanno frequentato i Tfa. Invece, tagliano un “pezzo” decisivo per la formazione di un insegnante: la riflessione sull’esperienza in atto.
Essa costituisce, tra l’altro, un riferimento epistemologico fondamentale per ogni forma di aggiornamento poiché focalizzata sulla problematizzazione qualificata e qualificante dell’esperienza (cosa che è stata apprezzata come tale dai tutor accoglienti delle scuole). Come è possibile che l’abilitazione al lavoro (non la laurea universitaria o l’attestato di un master) preveda che ciò che è essenziale sia la teoria e non anche la pratica? Chi ha verificato che questi giovani docenti sappiamo insegnare veramente? Non è certo per gettare discredito su questi corsisti, ci mancherebbe! Ma per riflettere su di un sistema che – benché lodevole nelle intenzioni – stenta ancora a prendere la forma probabilmente più efficace per formare i giovani docenti e per verificarne l’efficacia lavorativa. Non sarebbe necessario che i corsisti frequentassero effettivamente dei tirocini, ma che riflettessero in modo sistematico sul loro agire didattico insieme ai tutor coordinatori, nei laboratori di tirocinio (previsti dall’art. 10, comma 3 d).
Non è certo perché il corsista dei Pas supererà brillantemente tutti gli esami, che sarà garantita la sua competenza didattica in classe. Il problema non è da poco e si è manifestato anche nell’appena concluso Tfa, così come nelle vecchie Ssis: come valutare il giovane che chiede l’abilitazione all’insegnamento? È evidente che il suo cursus honorum ha un valore e che non se ne può prescindere: ma il caso vuole che ottime valutazioni agli esami non sempre corrispondano ad una passione ed attitudine alla docenza.
Si può valutare con maggiore attendibilità un neodocente solo vedendolo in azione, cioè mentre segue il tirocinio e mentre fa lezione: è una questione tanto evidente, quanto negletta. Perché non è certo semplice – ce ne rendiamo ben conto – dal punto di vista organizzativo costruire situazioni e momenti in cui sia il tutor di scuola, sia il tutor coordinatore possano valutare il neofita. Però questa dovrebbe essere la direzione. Per questo il percorso – in prospettiva – dovrebbe prevedere un anno di praticantato a scuola e un giudizio che nasca soprattutto dalle e nelle scuole, in coordinamento con docenti universitari e tutor coordinatori, così da dare una valutazione globale più attendibile.
E non è un caso, che un altro punctum dolens emerso da questo primo ciclo di Tfa sia stato proprio l’esame finale: gli atenei hanno cercato di interpretare nel modo più ragionevole possibile l’articolo del decreto in cui si indicano le modalità della prova orale finale abilitante (art.10, commi 6, 8, 9, 10, 11, 12). Tanto è vero che non poche università hanno dovuto ipotizzare esami finali un po’ funambolici, per tenere insieme, nella prova finale, sia la relazione di tirocinio in senso stretto, sia l’approfondimento accademico: infatti l’articolo citato recita che durante l’esame finale “della relazione finale di tirocinio è relatore un docente universitario” mentre al tutor coordinatore spetta di essere correlatore! Molte università hanno compreso che la questione non stava in piedi. Come può un docente universitario valutare una relazione di tirocinio? E come può – e perché deve – chiedere ai corsiti approfondimenti di tipo didattico, anche quando esulano dalle sue specifiche competenze?
Poi le cose si sono risolte nell’ottica del buon senso: ma non è questo che vorremmo sottolineare, quanto la stortura di fondo, che ha chiesto agli accademici di occuparsi di ciò che a loro non compete direttamente (tranne ovviamente per i docenti delle aree trasversali).
Analoghi problemi sono sorti – a nostro avviso – nell’impostazione del percorso: in molti casi gli insegnamentinon hanno incontrato il favore dei corsisti perché totalmente teorici, avulsi dal fare scuola quotidiano. Spesso le università hanno scelto i corsi senza consultare i tutor coordinatori (perché i corsi sono iniziati prima della loro nomina): dal prossimo anno, se il Tfa partirà, occorrerà dare maggiore spazio a chi, nel percorso del Tfa, rappresenta il mondo della scuola. D’altra parte i corsi più apprezzati sono stati quelli in cui i tirocinanti hanno ritrovato i problemi e le questioni dell’insegnamento. Il punto non è il fatto che siano corsi teorici: ma non si può chiedere ad un accademico che ha come compito specifico di fare ricerca, di improvvisare lezioni di didattica della geografia o della matematica! Lodevoli eccezioni ci sono state, eccome. Soprattutto nei docenti che, per storia personale o sensibilità, hanno impostato gli insegnamenti con un occhio alla didattica.
Perché – invece – non pensare di utilizzare i docenti (a partire dai coordinatori tutor o dai tutor di scuola) con comprovate competenze specifiche nelle didattiche disciplinari?
Perché non si arriva a riconoscere che accanto agli insegnamenti puramente teorici ci devono essere anche i laboratori – spesso non attivati – condotti dai tutor coordinatori o da figure di docenti della scuola? Perché non si arriva a riconoscere il sapere praticocome un sapere epistemologicamente fondato, riconosciuto ormai in tutte le accademie? Perché solo la teoria sarebbe degna di essere insegnata? E la pratica dovrebbe essere lasciata ai margini, a qualche laboratorio, se c’è spazio; e non retribuito, perché i soldi vanno ai corsi accademici teorici, mentre non ce ne sono per i laboratori pedagogico-didattici indirizzati alla rielaborazione e al confronto delle pratiche educative e delle esperienze di tirocinio, espressamente previsti dal Decreto (art.10 c.3 d)?
Eppure per imparare un lavoro, qualsiasi, dal più semplice al più complesso (giornalista, avvocato, medico,…) si fanno anni di praticantato, eccome!
Il DM 249 presenta il grande, anzi grandissimo, pregio di aver accolto l’istanza della formazione dei giovani insegnanti; non solo, ma ha anche avuto l’enorme merito di dare molto spazio al tirocinio (475 ore), così come non accadeva nelle vecchie Ssis: però, purtroppo, si sono generati, in questo primo anno di prova, degli effetti indesiderati non previsti, come spesso accade quando un dispositivo teorico si impatta con la realtà.
Non si tratta, ancora una volta, di mettere l’accademia contro la scuola: al contrario di definire ognuno i propri ruoli e le proprie responsabilità.
Occorre ripensare questo passaggio e magari anche aprirsi ad altre visuali di lungo raggio, ma che possono segnare una prospettiva. Ad esempio, perché non affidare alle scuole e ai loro docenti – che ne avessero le competenze – la formazione iniziale (con l’imprescindibile apporto dell’accademia), anche nell’ottica di una valorizzazione della autonomia delle scuole? Non vogliamo dare ricette, perché non ce ne sono, neppure all’estero, dove la questione della formazione iniziale è oggetto di ampi dibattiti; però ci sono esempi di Enti terzi non universitari, costituiti a questo scopo: perché non rischiare in questa direzione?