Puntualmente come ogni anno si commenta l’annuncio dell’assunzione da parte dello Stato di alcuni migliaia di docenti.

È un appuntamento fisso, non programmato, ma atteso come una strenna ferragostana, a cui segue immancabilmente la discussione sull’insufficienza del contingente assegnato. Però, solo pochi si soffermano su tre dure verità che, al contrario, meriterebbero molto di più le pagine dei giornali e le discussioni politiche. 



La prima. L’Italia è ormai l’unico paese al mondo in cui queste decisioni sono ottriate da un centro sovrano. È vero, i sogni di decentramento di Minghetti, Sturzo e De Gasperi prima contro lo statalismo liberale, poi fascista e infine repubblicano sono sempre rimasti lettera morta. Ma almeno quando si è in presenza di istituzioni decentrate che funzionano non sarebbe male riconoscere che il sistema di istruzione e di formazione del duemila non può più essere gestito come quello del 1800. Pena l’accettarlo con i risultati che le indagini internazionali ci documentano.



La seconda. Nonostante la truffaldina retorica giovanilisitica, i giovani sono costantemente esclusi da queste assunzioni. Forse non ce ne rendiamo conto a sufficienza, ma si tratta di una cosa molto grave. 

La terza. Certamente gli interventi di assunzione in quanto tali sono meglio di niente. Ma la scuola non ha bisogno di soluzioni “balneari”. Le serve una programmazione pluriennale certa nel tempo, che consenta anche alle nuove generazioni, ma non meno a chiunque, di verificare se chi governa è una struttura amministrativa dilettantantesca o affidabile.

Peraltro, per quanto riguarda la formazione iniziale, la strada da percorrere era già stata tracciata. Il decreto del ministro Gelmini n. 249 del 10 settembre 2010 aveva infatti regolamentato la modalità a regime dell’abilitazione degli insegnanti, prevedendo il conseguimento della laurea magistrale a ciclo unico quinquennale in Scienze della formazione o di bienni magistrali specifici per classe di concorso per la scuola secondaria di primo e secondo grado, oltre ad un anno di Tirocinio formativo attivo (Tfa). Per l’accesso ai corsi di laurea abilitanti era previsto un numero di posti limitato, determinato sulla base della programmazione degli organici e del conseguente fabbisogno di personale docente. Basate sulla programmazione di posti disponibili, queste modalità di abilitazione costituivano, dunque, la premessa per assicurare regolarità alle assunzioni di personale docente, per eliminare le cause che determinano l’insorgenza di nuovo precariato, per garantire alle nuove generazioni l’accesso all’insegnamento. Ma niente di questo è stato fatto, salvo che aggiungere ai già avventurosi percorsi di Tfa, non meno improvvisati Pas (percorsi abilitanti speciali), nonché altri espedienti emergenziali per tamponare problemi giganteschi (come il sostegno) che, in questo modo, tuttavia, non si risolveranno mai.



Contestualmente al rinnovamento della formazione iniziale, occorre certamente accelerare lo svuotamento delle graduatorie ad esaurimento, procedendo all’assunzione annuale di docenti per l’effettivo numero di posti vacanti e disponibili, perché anche ai precari storici e ricorrenti occorre dare certezza di assunzione, evitando però la riapertura di qualsiasi tipo di graduatoria.

L’applicazione di questi due chiari principi – una limitazione del numero annuo di abilitati ed una programmazione pluriennale di assunzioni annuali per coprire tutti i posti disponibili − rappresenterebbe, se solo lo si volesse, la via chiara e priva di ambiguità per eliminare il precariato dalla scuola, dare risposte alle nuove generazioni e certezze ad un sistema scolastico che è perennemente in sofferenza per l’elevato numero di posti da coprire con supplenze annuali. Non è uno sforzo enorme, non avrebbe impatto sui conti pubblici. Ma, evidentemente, una programmazione pluriennale certa di qualsiasi cosa non è un compito che ormai lo Stato riesca più ad assicurare.

Infine, occorre affrontare il tema della riforma del sistema di reclutamento. Il sistema scolastico è ormai maturo per introdurre nuove modalità di reclutamento del personale docente, in coerenza con i principi di qualificazione del servizio educativo, di incremento degli spazi di autonomia delle istituzioni, di ottimizzazione e utilizzo efficace delle risorse. È del tutto evidente che dopo un’abilitazione seria non si deve procedere ancora con concorsi come quelli che abbiamo conosciuto, che per altro hanno ormai dimostrato tutti i loro limiti, a partire dagli inevitabili ricorsi che li renderanno ancora per anni un’interminabile quanto kafkiana odissea.

Al contrario, si deve dare maggior ruolo alle scuole nella selezione dei propri docenti. Oggi le scuole non hanno alcuna voce in capitolo nella scelta del proprio personale. Il reclutamento risponde ancora ad una logica ed a meccanismi impersonali e centralisticamente uniformizzanti in cui non trovano spazio né la valorizzazione dell’effettiva professionalità del docente né le specifiche necessità dei territori.

Vi è quindi la necessità di un confronto aperto e leale sul passaggio ad un reclutamento effettuato dalle scuole stesse, in rete tra di loro, che tenga conto delle loro specificità − tipologia, dimensioni, contesto socioeconomico, etc. − e del loro Piano dell’offerta formativa.

Questo già accade in molti Paesi (Danimarca, Regno Unito, Irlanda, Paesi Bassi, Norvegia, Finlandia, Svizzera e Svezia) e da molti anni tutte le analisi evidenziano che i Paesi dove le scuole hanno grande autonomia e possono selezionare direttamente il personale ottengono i migliori risultati.

Con la Legge Regionale 7/2012 Regione Lombardia, in realtà, aveva voluto iniziare tale percorso con una sperimentazione per il reclutamento dei supplenti annuali, in accordo con lo Stato. Ma l’ex ministro Profumo ha preferito impugnare la legge davanti alla Corte costituzionale pur di non modificare lo status quo. Come Regione Lombardia tuttavia siamo sempre pronti a riprendere in Conferenza Stato-Regioni il tema della definizione di nuove regole di reclutamento nazionale e regionale. Anche perché non vorremmo che, per responsabilità non nostre, scendessimo ancora nella classifica europea dei territori più dinamici ed avanzati. Come si fa infatti a competere con il mondo senza risolvere gli elementari problemi di agibilità qualitativa del sistema di istruzione che si sono menzionati?