Io non so se il professore di Saluzzo che aveva storie malsane con le sue allieve frequentasse sette sataniche. Tenderei ad escluderlo, perché a voler cercare, rimestare nel torbido si rischiano di intorbidire acque che in quelle terre del cuneese servono ancora ad dar vita a frutteti e non sono tutte malate.
Non so se il professore abbia avuto responsabilità nel suicidio di una ragazza, nove anni fa. Certo è strano che conservasse tutte le sue lettere, ed è ancor più strano che intrattenesse una corrispondenza così intima con un’allieva: capita, che un ragazzo cerchi conferme e dialoghi con un adulto che stima, che lo intriga per la sua intelligenza e affabilità oratoria. Capita ad ogni sezione di liceo, quando si è fortunati, di trovare quel prof che “tira” la classe, che solleva domande, che suscita dibattiti e riesce a provocare afflati di sincerità, che scoprono tutte le corde della fragilità adolescenziale; quando la vita sfida, urge risposte che tu non hai, che nessuno pare in grado di darti. Quando senti confusamente che accontentarsi non ti basta, che manco la media alta a scuola o sfangarla alla maturità è un obiettivo, e vorresti tutto, ma proprio tutto, il significato del vivere.
Capita soprattutto con i prof di lettere e filosofia, che hanno testi, e voci da proporre, per tenere deste le inquietudini, per abbozzare risposte. Bellissimo, e terribile il potere di un maestro, affascinante e rischiosa la sua responsabilità: con i suoi sguardi, con le sue parole, con l’offerta del suo sapere può prendere per mano, attrarre alla bellezza, alla speranza, alla ricerca della verità. O può condurre a sé, con i i dogmi dell’ideologia o peggio, una morbosa attrazione.
Non è la prima vota che relazioni fatali sono nate tra i banchi i scuola tra allieve e docenti, etero e omosessuali. Non capita solo in una provincia che troppo superficialmente si descrive ora come chiusa, sospettosa, indispettita dalla pubblicità negativa, tesa a coprire chissà quali obbrobri sotto il velo del tran tran banale, di una strisciante e colpevole ipocrisia. L’Italia è provincia, ma Saluzzo non è diversa da Parma o da Roma. Smettiamola di credere che ci siano posti più o meno tranquilli. La cronaca nera ci ha abituati tragicamente a efferati delitti negli ambienti più assonnati e serafici. Le dinamiche non sono diverse dai fattacci che si svelano in una grande città. Semmai stupisce anzitutto chi ci abita, che la pazzia, la meschinità, i drammi esistenziali non siano mai venuti alla luce, in una piccola comunità, non siano mai stati compresi e aiutati.
Questo tiene lontani dai riflettori, con fastidio, i cittadini di Saluzzo. Che rivendicano il diritto ad essere trattati come tutti: un po’ distratti, un po’ rassegnati, nascondono voltando il capo il senso di colpa che ci pervade, quando ci scopriamo troppo indifferenti, e impotenti. Gli uomini sono tutti uguali. Le comunità pure, e le formalità col vicinato non significano rapporti stretti di frequentazione e conoscenza, tali da anticipare lo scarto, il male. La solitudine è di tutti e di ciascuno, che abiti in un condominio multipiano nel caos metropolitano o in una villetta che guada le colline e i filari di viti. La solitudine dei giovani, soprattutto. In una piccola città vogliono scappare, credono di trovare altrove slancio, attrattive, lavoro. Anche i giovani di Milano, della capitale, solo che i loro obiettivi sono spostati oltreconfine.
Non so se il professore di Saluzzo sia un criminale. Certo è un uomo colpevole, ed un uomo malato. Colpevole perché non si sfrutta la fiducia di ragazzine, non ci si appropria della loro giovinezza e del loro corpo per una simulata complicità intellettuale. Le indagini, se svolte senza le pressioni mediatiche che triturano vite e legami, faranno capire se c’è stata violenza, anche solo psicologica, se ci sono stati ricatti. C’è anche la possibilità, benché non convenga dirlo di questi tempi, che troppe sventate ragazzine, emule di trasgressioni bevute quotidianamente dalla tv e dalla rete, abbiano voluto osare. Basta una conoscenza minima di troppe sedici, diciassettenni per cogliere la provocante malizia, gli ammiccamenti, la volontà scientificamente perseguita di offrirsi. C’è chi lo fa per passare un esame, chi per soldi, chi solo per poterlo raccontare su fb, chi cerca un brivido adulto, chi si illude di esercitare un diritto di libertà.
Il tuo prof ha molte carte in più. È adulto, è elettrizzante il proibito che come un’aura lo rende desiderabile, ti stordisce l’idea che guardi proprio te, un uomo così intelligente e apprezzato. Non si può invocare ad ogni occasione la totale libertà di scelte, soprattutto sessuali, e poi scandalizzarsi se delle ragazzine decidono di esercitarla. Meglio concedersi a un uomo per un innamoramento, assurdo finché si vuole, che farlo per una raccomandazione, un posto in prima fila. Questo non toglie nulla, assolutamente nulla, alla colpa, alla necessaria pena, al tormento morale, se ha una coscienza, del professore di Saluzzo, e tralascio il suicidio di tanti anni fa, in quanto non è ancora provato il suo coinvolgimento, che renderebbe ancora più grave il caso. Ma apre uno squarcio nel buio che avvolge i nostri ragazzi, che non riusciamo a capire: chi sono, cosa desiderano, chi o cosa li muove, quanto sono vulnerabili e soli.
Cercano dei maestri, e non trovano che approfittatori. Cercano libertà, e credono di trovarla obnubilandosi la mente, segnandosi la vita con marchi indelebili. Ieri sul quotidiano piemontese La Stampa leggevamo due interviste: al padre di una delle due ragazze legate da rapporti intimi al professore, e al figlio dell’imputato. La prima sconcerta, stringe il cuore, per l’assordante silenzio. Quel padre parla, sollecitato dalle domande, ma non dice nulla. Smozzica pensieri che potrebbero essere di qualsiasi altro padre, non sa chi è sua figlia, ferito, sgomento dall’estraneità con chi ha cresciuto e visto girare per casa coi libri di scuola in mano. E commuove il giudizio, senza esitazioni, del figlio del “mostro”, che non scusa il padre, ma vuole comprenderlo. Che non lo giustifica, ma vuole stargli vicino.
Non condanniamo quel giovane. Ci ha turbato − ma per l’ammirazione − l’atteggiamento del papà di Erika, dopo l’assassinio della mamma e del fratellino a Novi Ligure. Il papà l’ha accolta, le ha voluto bene, nonostante lo strazio, dentro lo strazio. È sua figlia. Forse le ha permesso di rinascere. Questo figlio che riconosce suo padre, nelle sue colpe, nelle sue debolezze, è un uomo forte, diverso, potrà essere un padre e un maestro migliore.