Tortuoso e accidentato: così è apparso il percorso del Tfa ordinario che si è concluso nella gran parte delle università italiane nel mese di luglio. A oggi sono in ballo tre percorsi: il Tfa ordinario (appunto appena concluso); il Tfa speciale (ora chiamato Pas – “Percorsi abilitanti speciali”), finito nella Gazzetta Ufficiale del 4 luglio come decreto n. 81/2013 ed entrato effettivamente in vigore il 19 luglio scorso; infine, il concorso nazionale che vede ancora le ultime prove orali in questi giorni, l’unico in grado di garantire una cattedra agli aspiranti docenti.



Il Tfa ordinario – di cui si vuole dare conto – riguarda il percorso normato dal DM 249/2010, che ha preso l’avvio giusto un anno fa, con i famigerati test preselettivi, che hanno dovuto essere velocemente emendati e ri-valutati per superare il fuoco di fila dei ricorsi. Complicato è stato anche l’avvio, cosicché le prime Università hanno iniziato a erogare i corsi accademici verso novembre-dicembre, ma senza la presenza dei tutor coordinatori, quindi senza la possibilità di iniziare il tirocinio: le prime autorizzazioni degli USR per distaccare in semiesonero i tutor coordinatori sono arrivate a febbraio! Un periodo che ha costretto i tirocinanti a fare una vera corsa a ostacoli, soprattutto per chi di loro già insegnava, per conciliare scuola, frequenza delle lezioni del Tfa e tirocinio a scuola! Non c’è dubbio che, per la gran parte di loro, l’esame finale sia stato una vera e propria liberazione.



Credo si possa tutti convenire sul fatto che questo primo Tfa ha portato con sé non poche difficoltà di ordine organizzativo, inevitabili quando si inaugura un nuovo iter. Ma non è su questo che vorremmo porre l’attenzione: altri lo hanno già fatto, anche su questo giornale, con dovizia di particolari. È vero, il Tfa è stato un po’, come dire, un percorso di passione, nelle due accezioni che si possono attribuire al termine. Di passione, perché sicuramente costellato di fatiche, tempi troppo brevi per studiare, seguire le lezioni accademiche ed insegnare. Ma è stato un percorso di passione anche per l’altro verso della medaglia, cioè appassionato e appassionante. È stato un momento in cui, scrostati i pesanti sedimenti burocratici, fatta la tara sulle storture organizzative (le Università si sono trovate non pochi problemi da dirimere), sullo studio “matto e disperatissimo”, sulle acrobazie da equilibrista per farci stare lezioni scolastiche, correzioni compiti, adempimenti di fine anno, consigli di classe, prescrutini, scrutini, Esame di Stato e presenza al tirocinio, ecc., alla fine sono affiorati alla superficie, dal profondo, invisibili all’apparenza, anche elementi di positività.



In particolare, per tutti i corsisti il tirocinio nelle scuole è stato un momento decisamente proficuo e prezioso. Perché? Perché hanno potuto finalmente mettere le mani in pasta, entrando nelle classi. Hanno potuto dare carne agli insegnamenti teorici che avevano imparato a lezione; hanno visto altri docenti all’opera; hanno incontrato – nella stragrande maggioranza dei casi – insegnanti impegnati, appassionati, intraprendenti, che li hanno accolti e che hanno – a loro volta – appreso da loro. Si impara a insegnare vedendo un altro in azione. C’è bisogno di maestri che siano capaci, come nelle botteghe medievali, di insegnare i “misteri dell’arte”: perché si impara facendo insieme, osservando, e poi ri-facendo e riflettendo sull’esperienza, secondo l’esemplare lezione di D.A. Schön (1983).

E durante il tirocinio sono nati rapporti cordiali, anche appassionati, in cui i corsisti hanno potuto raccontare di sé, delle proprie esperienze, dei propri dubbi, delle proprie incertezze, come è tipico di chi inizia un lavoro (e non solo di chi inizia): l’insegnamento non è una routine, ma un gesto sempre nuovo, che non può accomodarsi su rassicuranti protocolli predefiniti, ma che si nutre del sempre nuovo rapporto che si instaura ogni giorno tra docenti e studenti.

Analogamente è accaduto nei laboratori di tirocinio con i tutor coordinatori o con i docenti universitari, laboratori nati spontaneamente o programmati dalle università, in cui i tirocinanti hanno potuto trovare un luogo in cui dirsi e darsi, in un dialogo con i tutor coordinatori e con alcuni docenti che hanno reso il tirocinio una vera e propria esperienza, perché è solo il giudizio sul fare che lo rende tale.

Ora partiranno i percorsi speciali, nei quali non è previsto il tirocinio: tanto è vero che il Miur ha provveduto ad adeguarne la dicitura. Si chiameranno Pas ovvero “Percorsi abilitanti speciali”: il tirocinio non è più previsto, dal momento che si presume essere già stato assolto da chi ha insegnato nella scuola per più di 360 giorni. Ciò è ben comprensibile, anche se ci chiediamo: siamo proprio certi che 360 giorni nella scuola – in qualsiasi tipo di scuola – siano in grado di dare una patente all’insegnamento? Conosciamo scuole in cui i giovani professori sono accompagnati e introdotti nel proprio lavoro, attraverso un tutorato stretto ed efficace. Ma sappiamo anche che, in molte scuole italiche – schiacciate dalle incombenze burocratiche e sempre più affamate di soldi – l’accompagnamento ai nuovi è sempre più lasciato alla buona volontà di qualche docente generoso. Non sarebbe, perciò, il caso – comunque – di prevedere delle forme di riflessività sulla propria azione di insegnamento anche per questi docenti? Se è vero che il tirocinio è stato il “cuore pulsante” del Tfa, perché non prevederlo anche nei Pas?

Vorremmo, inoltre, spendere qualche parola per il proseguimento del Tfa ordinario. Perché? Ecco alcuni buoni motivi per continuare il Tfa ordinario (oltre ai Pas, s’intende!).

1) Al netto degli elementi di negatività a cui si è accennato, perché non mettere a sistema il percorso, per poter correggere gli errori e capitalizzare l’esperienza fatta? Certamente occorre riequilibrare molti aspetti, ma si potrà intervenire se il Tfa proseguirà, non se sarà bruscamente interrotto: abbiamo visto la fatica della ripresa dopo cinque anni di chiusura delle Ssis! Perché non rendere ordinario il percorso? Perché passare sempre per vie eccezionali? Perché anche in Italia non può succedere ciò che accade in molti paesi esteri, dove è possibile l’accesso ordinato e ordinario ai corsi abilitanti?

2) Ci sembra che la formazione iniziale dei giovani docenti faccia parte delle politiche non semplicemente culturali, ma anche economiche di un Paese, perché i giovani sono il futuro della nazione. In particolare, non selezionare, preparare, valorizzare chi, tra i neolaureati, ha una passione per l’insegnamento, significa correre il rischio – ben noto – di allontanarne non pochi: ho visto più di un neolaureato, desideroso di insegnare, che però ha dovuto dirottarsi in altri ambiti lavorativi per potersi autosostenere finanziariamente.

3) Da ultimo, un’osservazione che reputo significativa. Anche se la compilazione dell’elenco regionale delle scuole disposte a ospitare tirocinanti (secondo il DM n. 93/2012, relativo all’accreditamento delle scuole) è stato posticipato al prossimo anno, molte istituzioni scolastiche hanno reso nota – in modo informale – la loro disponibilità. A differenza degli anni della vecchia Ssis, i corsisti hanno potuto essere ospitati, nella gran parte dei casi, da scuole e docenti che avevano scelto di accoglierli. L’esperienza è stata positiva: i docenti tutor delle scuole non solo hanno superato la tradizionale paura (avere un giovane in classe può essere percepito con un certo timore anche dall’insegnante senior!), ma in molti casi hanno espresso ai tirocinanti stessi o ai tutor accoglienti una piena soddisfazione per il fatto che la presenza dei giovani docenti li ha un po’ scossi dalla loro routine, costringendoli a una riflessione critica – e, perché no, valorizzatrice – sulle prassi didattiche in atto e ha permesso loro di venire a conoscenza, anche se in via indiretta, di nuovi saperi (metodologici, pedagogici, didattici ecc.).

Il tirocinio, perciò si è rivelato un ottimo “corso di formazione” a costo zero per il Miur, dal momento che, in molti casi, sono state le Università a coprire i costi per gli accoglienti. In ogni caso, si è costituito – in modo imprevisto – un canale privilegiato tra Accademia e Scuola, che si è trasformato in un fecondo corso di aggiornamento! Perché non considerare anche questa opportunità, riaprendo il secondo ciclo del Tfa ordinario? Sarebbe comunque opportuno un riconoscimento più consistente del ruolo dei docenti accoglienti, che sono stati il vero motore del tirocinio.

Insomma, se è vero che molti sono stati gli incidenti nel percorso e ancora molto è da perfezionare per renderlo più lineare ed efficace per i corsisti sciogliendo i molti nodi, non vorremmo, però, che si buttasse il “bambino con l’acqua sporca”. Per questo ci auguriamo che, come il provvedimento sui Pas è stato emanato anche se in modo un po’ tardivo, ci sia ancora il tempo per un provvedimento “tardivo” ma effettivo sul Tfa ordinario. Sappiamo bene che il Miur deve superare un mare di vincoli burocratici e finanziari… però noi continuiamo a sperarci.

La formazione iniziale è un momento troppo significativo per la selezione e la promozione dei docenti e la scuola è un’istituzione troppo importante per la crescita economica, culturale e sociale di un Paese: in un’epoca di crisi come l’attuale ci sembra che il rischio di un investimento in educazione sia quasi inevitabile.

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