In un recente documento “Conoscere e usare più lingue è fonte di ricchezza” l’Accademia della Crusca, unitamente ad altre associazioni linguistiche, tutte legati agli studi italianistici, ha ribadito l’utilità e la necessità del plurilinguismo nelle politiche scolastiche. Indirizzato alla presidenza del Consiglio, al Presidente della Repubblica e ad alcuni ministeri, il documento sottolinea la validità del plurilinguismo nell’alveo di un significativo richiamo alla questione formativa, cioè all’educazione, vista come fattore indispensabile di ripresa economica e di esercizio di libertà individuale, chiedendo alla politica di recepire le indicazioni emerse dalla ricerca scientifica in vari campi in merito ai vantaggi del plurilinguismo, che non nuoce, anzi, aiuta lo sviluppo della lingua madre.
Nella sua risposta il ministro dell’integrazione Kyenge dà segni di apprezzamento del documento stesso, con osservazioni legate alla natura plurilingue della lingua italiana attraverso i dialetti e alla presenza positiva di immigranti di seconda generazione nel nostro Paese come fattore di mediazione culturale in quanto abitanti di due o più mondi attraverso due o più lingue. Posizioni molto equilibrate e ben distanti dal guelfi vs ghibellini approach, la difesa di una sola lingua (l’italiano) contro le altre, o meglio, un’altra (l’inglese), percepita da taluni come il nemico da combattere.
I recenti interventi su queste pagine hanno ben chiarito che trascinare la lingua di Dante, Manzoni, Leopardi, Rebora, Puccini e Verdi sul ring della polemica a favore della stessa denota sola insicurezza e un senso di inferiorità culturali indegni della lingua di Dante, Manzoni, Leopardi, Rebora, Puccini e Verdi. Basta quindi con il “complesso dell’inglese” e con il proibizionismo linguistico che trasforma il libero scambio di parole e costrutti in un contrabbando da sanzionare.
Essendo lingua romanza e non germanica l’italiano non riuscirà forse, come il tedesco con il Denglish, a inventarsi il suo Italinglish, ma potrà avvalersi dell’arricchimento che gli può venire dall’accogliere in se stesso quanto i parlanti riterranno necessario, utile o piacevole, della lingua inglese, e non solo di quella. Il filosofo russo Florensko ha illustrato in un suo recente intervento il significato di due parole russe. Dubito che esse verranno adottate dalla lingua italiana, a meno che non intervenga la dittatura non del proletariato, ma di un potere centralizzato che decida cosa sia da dirsi e cosa non lo sia, ma la nuova percezione di un’idea antica, eppur così nuova, che esse fanno baluginare anche nella parzialità di una glossa per chi non conosce la lingua russa può ben esemplificare quale gemma preziosa sia nascosta nella confusione della Torre di Babele del plurilinguismo. Me, alter! Me, change! di Emily Dickinson nel poema dice di un io che si “altera” in un alter ego, in una trasfigurazione dell’io sia invocata che sorpresa nel suo essere. Chi vive questa esperienza di “nuova visione dell’essere” in quanto parlante di più lingue apre occhi diversi a ogni istante, e dalla confusione della Torre di Babele rinasce, per quanto possibile nella Middle Earth, l’unità della famiglia umana, in cui uno dice all’altro “Behold!”.
Guarda, cioè rimira con i miei occhi, e quindi sii veramente, per quanto temporaneamente e parzialmente, me. E se vivere la realtà dell’altro come propria è l’obbiettivo finale della conoscenza di più lingue, qualsiasi politica scolastica si infrangerà sul bagnasciuga della risposta del singolo parlante, e parlare una lingua o più lingue rimarrà ciò che è, l’atto di una persona libera che comunica, mette in comune, quanto vede, non solo delle lingue vive, ma anche di quelle morte.
Etimologicamente parlando, nel nuovo è contenuto il vecchio, anzi, il “morto”. L’Everyman di Philip Roth, sensuale, narcisistico e terrorizzato dalla propria vecchiaia e decadenza a 67 anni, non può tuttavia negare l’attaccamento alle dear bones (“le care ossa”) di suo padre e di sua madre; dovrebbe fuggirle, perché cosa più di esse è per lui memento mori, 67 anni e dopo anni di interventi ad un cuore improvvisamente malandato?
Chi più delle lingue morte ci dice che nessuna lingua è eterna, che il cambiamento è inarrestabile e ingovernabile, che la nuova visione dell’essere, così affascinante ora, così difficile da conquistare, muterà ancora e ancora, e finirà per morire? Ma se non sappiamo staccarci dalle care ossa, come potremo farlo dalla carne viva della lingua del mio vicino? L’inglese come lingua della internazionalizzazione dei corsi universitari è cosa ben diversa.
Lungi dal voler smentire la saggezza del Manzoni, c’è da chiedersi tuttavia se la decisione del Politecnico di Milano, origine di schieramenti e polemiche in merito a guelfi (no English) e ghibellini (pro English), rientri nell’ambito delle scelte prese “a briglia sciolta”; secondo i dati presentati in Course Offerings in English delivered by Italian Universities ancora relativi all’anno accademico 2011/12, rilevanti l’offerta formativa svolta totalmente in lingua inglese nell’anno accademico 2011-2012, sugli 81 atenei associati al CRUI, Più del 70% degli atenei (57) nel 2011/12 ha erogato un’offerta formativa in lingua inglese, per un totale di 671 corsi, distribuiti in diverse tipologie di proposta, come evidenziato nel Grafico 1: