Il nuovo anno scolastico – ai nastri di partenza – è stato inaugurato con l’approvazione di un decreto legge dal titolo beneaugurante “L’istruzione riparte”. E difatti l’evento in sé è sicuramente di buon auspicio, perché costituisce un fenomeno del tutto nuovo nel panorama della nostra tradizione politica, abituata per lo più a trattare la scuola con sufficienza e come un fardello inutile. Stavolta invece il Governo ha voluto dare – almeno simbolicamente – l’impressione di cambiare rotta, considerando la scuola come uno dei principali volani della ripresa e come una condizione indispensabile per lo sviluppo. Naturalmente tutto questo da solo non basta ma può rappresentare un buon punto di partenza, oppure – come si è voluto suggerire – di “ripartenza”.
Tra le tante questioni affrontate nel decreto, non si poteva non trattare il nodo del reclutamento dei dirigenti, che tanti, troppi disagi ha creato nelle ultime tornate concorsuali ancora in parte non chiuse a seguito di un forsennato contenzioso che ne ha in molti casi impedito il regolare svolgimento. Vale perciò la pena di parlarne per cogliere l’occasione per un’ulteriore approfondimento della materia, particolarmente utile in concomitanza con l’avvio dei lavori di conversione in legge del decreto e, a norma approvata, con l’elaborazione del decreto del presidente del Consiglio dei ministri, legge e decreto che dovranno definire la disciplina della materia nel modo più adeguato possibile al recepimento dei necessari correttivi resi indifferibili dallo svolgimento degli ultimi concorsi.
Sugli aspetti innovativi del decreto legge, nulla da dire sull’istituto del corso-concorso, già felicemente collaudato per l’assunzione di altri profili dirigenziali nelle pubbliche amministrazioni. E da salutare con assoluto favore è anche la norma che prescrive una cadenza annuale, al posto di quella triennale attualmente vigente, per mettere a concorso tutti i posti vacanti: è certamente l’unico modo per ridurre drasticamente la scopertura dei posti di funzione dirigenziale e per ricondurre nei limiti della fisiologia il ricorso alle reggenze.
Una riflessione più ampia merita invece l’allocazione della competenza sulla Scuola nazionale dell’Amministrazione. Al di là del processo di ricentralizzazione che la decisione comporta, attenuato solo dal fatto che un vero decentramento nella sostanza non era stato fino ad ora mai attuato, non si può ignorare che la tradizione culturale della Scuola nazionale, ex Scuola Superiore di Pubblica Amministrazione, affonda le sue radici nel diritto amministrativo, mentre le competenze del dirigente di una scuola attengono prevalentemente al campo dell’organizzazione e della gestione delle risorse umane e strumentali. È con la relazione interpersonale e con l’organizzazione della didattica che ha quotidianamente a che fare, non con le pratiche o con gli adempimenti burocratici.
Del resto esistono nel nostro paese autorevoli esempi di Istituti specifici per la formazione di dirigenti di altri settori, quello diplomatico per la corrispondente carriera ne è un esempio e la Scuola superiore del ministero degli Interni per la carriera prefettizia ne è un altro. Nel caso dei dirigenti del sistema di istruzione e formazione si potrebbe forse realisticamente pensare, anziché all’istituzione di una specifica Scuola, all’introduzione nella Scuola nazionale d’Amministrazione di un’apposita autonoma sezione affidata a dirigenti di collaudata esperienza nel settore, che si facesse carico della complessità del ruolo e di tutte le competenze necessarie per ricoprirlo.
Accanto alle norme a regime ci sono anche interventi emergenziali che occorre valutare, il principale dei quali introduce l’esonero dall’insegnamento per i primi collaboratori dei dirigenti nelle scuole date in reggenza limitatamente alle regioni in cui le operazioni concorsuali non sono ancora concluse e al periodo che si chiuderà con l’assunzione dei neovincitori in corso d’anno. La ratio è chiara e del tutto condivisibile: nelle scuole in cui il dirigente è “a mezzo servizio” è necessario offrirgli una figura di collaborazione a tempo pieno, in modo che possa dividersi fra due istituti. Ma perché questo possa valere solo nelle scuole date in reggenza all’interno delle regioni in cui i concorsi non sono stati conclusi e non in tutte le altre delle restanti regioni italiane, come pure in quelle di provenienza del dirigente titolare, in cui la situazione è sempre quella della presenza di un dirigente a tempo parziale, razionalmente non è dato sapere. A tutta prima potrebbe apparire una palese ingiustizia ed un caso di evidente disparità di trattamento. Ma è più verosimile pensare che il nostro decisore politico, sempre per ragioni di bilancio, privilegi gli interventi “tappabuco” a quelli strutturali e di sistema.
Vi è infine una previsione del tutto incompatibile con equità, normativa contrattuale e diritto del lavoro, la norma “scippo” ovvero la subordinata con la quale si scarica il pagamento dei supplenti temporanei dei collaboratori in esonero negli istituti dati in reggenza sul Fondo unico nazionale per la retribuzione di posizione e di risultato dei dirigenti scolastici. Come a dire: se non bastano le risorse per il normale funzionamento del sistema, niente paura. Pagano direttamente i presidi come categoria riducendo corrispettivamente il loro fondo contrattuale e il loro trattamento economico con saldo a somma zero per l’erario. È l’uovo di Colombo. D’ora in poi sapremo dove attingere i soldi che mancano per i tanti bisogni insoddisfatti delle nostre scuole: pagano i dirigenti.