I numeri sono alla fine arrivati. Poco meno di 66mila domande accolte, per i Percorsi abilitanti speciali (Pas), su quasi 69mila inserite nel sistema telematico: 23.700 circa per abilitarsi all’insegnamento nella scuola primaria e dell’infanzia, con un percorso ancora tutto da definire; poco meno di 45mila per accedere ai percorsi per l’abilitazione nella scuola secondaria. Numeri che sono sostanzialmente in linea con le previsioni fatte a suo tempo dal Miur, anche se, fino a 15 giorni prima della scadenza, in molti avrebbero scommesso su numeri decisamente più bassi. Iscrizioni che si era pensato in un primo tempo di contingentare in tre anni, ma che hanno visto tramontare quest’ipotesi senza che venisse spiegato come il sistema universitario avrebbe potuto sostenere un tale “assalto”. Ma, si sa, finché non vedo non credo, e i numeri, ora, sono quelli che sono.
In occasione della determinazione dei posti per il primo ciclo di Tfa fu chiesto alle università quale fosse la quota di studenti sostenibile: gli atenei si espressero indicandola in poco meno di 20mila unità. Tuttavia solo in 11mila (circa) superarono lo sbarramento dei test di selezione, e le università gestirono con molta fatica questo carico.
Se si considerano solo le iscrizioni ai Pas, i volumi sono sei volte tanto. Un numero che pare insostenibile per il sistema universitario, che dovrà necessariamente assicurare l’accesso anche ai 29mila giovani laureati per i quali il ministro dell’Istruzione ha chiesto ai ministeri dell’Economia e della Pubblica amministrazione l’autorizzazione per l’avvio dei Tfa ordinari (intervento del ministro Carrozza alla Camera dei deputati il 7 agosto 2013).
Allora ci si domanda: come si procederà?
La prassi seguita in simili casi vuole che le università si esprimano su quante risorse siano in grado di mettere a disposizione in funzione delle loro capacità organizzative. Non ci pare sia ancora stato loro formalmente chiesto. In verità questo passaggio avrebbe dovuto avvenire “prima” e non “dopo” la raccolta delle iscrizioni. Avviare i percorsi è un’operazione che coinvolge la struttura complessiva dell’offerta formativa accademica. Si parla di segreterie amministrative e didattiche, di procedure di selezione dei docenti, di strutturazione di piattaforme e-learning, di disponibilità di aule e risorse strumentali (già utilizzate da altri corsi), di apertura di sessioni di lavoro al sabato e (forse) alla domenica.
Last but non least, i percorsi vanno progettati, per buona parte dei corsi, ex novo, giacché non possono essere una riproduzione dei Tfa, ma devono declinare, soprattutto per le lezioni di laboratorio, la didattica disciplinare in maniera diversa. Lo si fece anche per i corsi regolati dal decreto ministeriale 85/2005 in applicazione della legge 143/2004. Un’organizzazione problematica e complessa, con un front office di supporto che chi ha già lavorato in questi ambiti sa essere molto impegnativo. Un carico di lavoro che avrà inevitabili ricadute sugli altri corsi accademici, per i quali le università si impegnano, con numeri programmati, da anni.
Qui emerge il vulnus di tutta la questione formazione iniziale degli insegnanti: la mancanza di una soluzione strutturale e stabile del sistema di formazione, soprattutto per i percorsi relativi alla scuola secondaria (giacché la formazione degli insegnanti di primaria e infanzia è già saldamente incardinata nell’università). Sintomatico che a tutt’oggi non si abbiano ancora gli atti amministrativi necessari all’avvio dei Tfa ordinari del secondo ciclo, nemmeno per i test selettivi. Urgente quindi affrontare questo snodo chiave, dando stabilità a strutture, risorse umane e procedure per metterle in condizione di dare continuità e qualità ai percorsi.
Se si legge tutta la storia, dal 1999 ad oggi, della formazione iniziale degli insegnanti (ci si riferisce ai percorsi per insegnanti di scuola secondaria, la più vulnerabile fra le due vie di accesso all’insegnamento) sembra di trovarsi di fronte a un’Amministrazione afflitta dalla sindrome di Penelope. Chi potrà mai pensare di impegnare parte delle proprie risorse in queste condizioni? Chi ci lavora da anni lo sa bene.
Doveroso quindi, verificare la disponibilità effettiva di risorse delle università. Se, infatti, si procede coattivamente non è difficile pensare alla reazione degli atenei. Con quale senso di responsabilità una università seria può dichiararsi in grado di assicurare un’adeguata preparazione a un numero così alto di corsisti? Formare insegnanti non è come fare lezione alle matricole del primo anno. Con quale serietà si direbbe di sì a numeri di queste dimensioni quando per il ciclo di Tfa appena concluso, si comunicò un limite sostenibile di 20mila unità? Come si potrebbero ignorare le difficoltà riscontrate per portare ad abilitazione gli 11mila ammessi al primo ciclo? E questo a prescindere dal fatto che nei Pas non sia previsto il tirocinio a scuola, condizione che esclude totalmente la scuola da un coinvolgimento attivo nella formazione dei propri insegnanti; una scelta assolutamente incondivisibile, per molte ragioni legate alle caratteristiche e alle finalità della formazione professionale all’insegnamento.
Se si dovesse quindi andare “alla conta”, in che modo si “conterebbe” la distribuzione fra Pas e Tfa ordinari? Non è possibile e sarebbe gravemente discriminante sacrificare solo il percorso ordinario, per il solo fatto che per l’altro sono già state acquisite le iscrizioni. Non in uno stato di diritto.
Un pronunciamento della Crui su questi problemi sarebbe auspicabile. Si avverte, inoltre, la mancanza di un parere neutrale del Consiglio nazionale della pubblica istruzione (Cnpi), organo oggi non più operativo, che certo non si è mai espresso in modo inopportuno. Ma allo stesso ministro sarebbe richiesta una maggiore asserzione nel dare rassicurazioni e indicazioni orientative.
Il passaggio attraverso la valutazione delle università e la loro responsabilità formativa è quindi imprescindibile. Solo queste ultime possono valutare come assicurare i necessari livelli di servizio formativo, resistendo alla tentazione dell’aspetto economico (da verificare, ma con questi numeri decisamente consistente) a spese della qualità. Qualunque scelta diversa va evitata.
A meno che non si voglia un’abilitazione “a tutti i costi” ignorando qualità dei percorsi e condizioni necessarie per assicurarla. Trascurando quindi la formazione, il contenuto, il perseguimento di un valido sistema di costruzione delle competenze d’insegnamento, sacrificati all’obiettivo dell’ottenimento di un pezzo di carta con valore legale, ma svuotato del suo valore formativo.
Che si direbbe se, invece di parlare di insegnanti, parlassimo di medici? Qualcuno dovrebbe spiegare perché una tale sventura sia inaccettabile per le professioni sanitarie e lo diventi invece per quelle educative.
Se si dovesse spingere per procedere ad ogni costo sarebbe inevitabile impoverire gravemente i percorsi. Sarebbe stato allora più onesto procedere con una sanatoria per tutti: precari e laureati. “Signori, le esigenze dell’occupazione prevalgono su quelle della formazione e della qualità della scuola: quindi quest’anno abilitazione per tutti! Voltiamo pagina. Ne riparleremo domani”. Con buona pace di insegnanti, studenti, famiglie e del Paese. La sintesi fra esigenze e pressioni derivanti da valutazioni relative a disoccupazione, lavoro e precarietà rischiano di essere pagate a prezzo molto elevato. Meglio sondare altre soluzioni. Ci sarebbero.
Se di investimenti in qualità e formazione si vuole parlare si abbia cura di parlarne seriamente e di assumere le conseguenti decisioni.
Le parole pronunciate dalla giovane pachistana Malala Yousafzai il 12 luglio scorso, davanti all’Assemblea dell’Onu − “Un bambino, un insegnante, un libro, una penna possono cambiare il mondo. L’istruzione è la sola soluzione. L’istruzione prima di tutto” − suonano come un monito a scegliere sempre e comunque il meglio, quando in ballo c’è l’istruzione e l’educazione.
Di questo c’è assoluto bisogno anche, e soprattutto, quando si parla di formazione iniziale degli insegnanti.