“Riteniamo che sia necessario valutare il grado di conoscenza della lingua italiana, e crediamo che esso, per moltissimi aspetti, sia verificabile attraverso prove strutturate”. A dirlo è Rita Librandi, presidente di Asli, Associazione per la storia della lingua italiana. Asli ha organizzato per oggi una giornata di studio dedicata alla valutazione dell’italiano: “Valutare i saperi. Come accertare la conoscenza della lingua italiana”, con interventi, tra gli altri, di Elio Franzini, Giorgio Israel, Daniela Notarbartolo, Francesco Sabatini e Luca Serianni. Valutare l’italiano si deve, ma come? Qui le strade si dividono, e a dividerle, com’è facile immaginare, sono le prove standardizzate Invalsi. “Non vogliamo un processo alle prove Invalsi” – spiega Librandi – “ma nemmeno una loro esaltazione senza riserve”.



Perché Asli, che raccoglie studiosi di storia della lingua, ora si interessa anche di valutazione?
L’Asli è impegnata nella diffusione e nella buona conoscenza della lingua italiana a tutti i livelli e la scuola non poteva rimanere estranea ai nostri obiettivi. Per questo da un paio d’anni abbiamo dato una forma più strutturata al nostro lavoro creando una sezione apposita, Asli Scuola, coordinata dal professor Paolo D’Achille. I problemi posti dall’insegnamento della lingua italiana si sono moltiplicati, e tra questi uno dei più importanti è certamente quello della formazione degli insegnanti, chiamati a valutare adeguatamente la conoscenza e la competenza linguistica dei propri studenti.



Cos’ha da dire oggi una tradizione storica e critica come quella della nostra accademia a una formazione scolastica che si va sempre più orientando verso le cosiddette “competenze”?
Non so perché si osteggi tanto la parola “competenza”. Essa, infatti, significa una serie di cose non alternative ma compresenti – non solo conoscenza della lingua ma capacità di comunicare cose quotidiane, conoscenza precisa delle regole e al tempo stesso conoscenza delle necessarie variazioni di registro, in base alle situazioni. Non si ha una conoscenza adeguata della lingua se non ci sono questi fattori.



Non teme che l’accento sulle “competenze” implichi un’evoluzione peggiorativa del patrimonio tradizionale classico delle conoscenze, delle “cose che si sanno”, delle buone, vecchie regole?
Non sono addentro al dibattito che riguarda più da vicino le tecniche della didattica e della pedagogia. Per quanto riguarda noi linguisti, con il termine di competenza intendiamo una serie di conoscenze profonde, adeguatamente acquisite, che costituscono il bagaglio necessario per usare una lingua come si deve. La conoscenza della grammatica, intesa non solo come morfologia ma come capacità di costruire dei discorsi corretti, da sola non basta; occorre saper comunicare adoperando il registro giusto al momento giusto, dominando un lessico tanto ampio da permettere di leggere testi mediamente complessi e di redigerne altri che vadano dallo stile web a quelli più argomentativi.

Tutte “conoscenze” che formano nel loro complesso un’adeguata “competenza” della lingua italiana? 

Sì. Ripeto, questa è l’interpretazione che diamo di competenza come linguisti e storici della lingua. Non so se sia l’unica possibile.

Nella tavola rotonda di oggi vi confrontate anche con posizioni contrarie alle prove standardizzate. Semplificando, l’obiezione di fondo è quella che non si dovrebbero misurare entità immateriali come i significati, e le relative comprensioni − soggettive − di tali significati. Cosa risponde?
Occorre un sano equilibrio. Abbiamo volutamente intitolato la giornata “Valutare i saperi”, evitando un titolo incentrato sulle prove Invalsi. Non vogliamo un processo alle prove Invalsi, ma nemmeno una loro esaltazione senza riserve. Nel frattempo, riteniamo che sia necessario valutare il grado di conoscenza della lingua italiana, e crediamo che questo grado di conoscenza, per moltissimi aspetti, sia verificabile attraverso prove strutturate.

“Moltissimi aspetti”, dunque; non tutti.
No, non tutti. Naturalmente queste prove non riescono a dare il quadro complessivo di una competenza profonda. Riescono a verificare alcune conoscenze, mentre altre sfuggono e vanno appurate con altri tipi di verifica.

Prendiamo un caso concreto: la capacità di capire un testo.
Essa riguarda non solo la capacità di condurre ragionamenti logici sul testo, ma anche il possesso di un lessico adeguato. Secondo noi queste capacità si possono verificare con prove anche standardizzate di comprensione dei testi. Ci potrebbero essre alcuni ritocchi da fare, ma devo dire che alcune prove Invalsi di comprensione dei testi sono apparse molto congruenti e adeguate. In altri casi, probabilmente, la semplice verifica delle conoscenze lessicali o delle regole morfologiche o sintattiche non consente di avere un quadro generale della competenza linguistica.

Ad esempio?
La capacità di uno studente di produrre un testo argomentativo di livello non elementare, oppure un testo rivolto ad un determinato pubblico. Questo non si può verificare attraverso quel tipo di prove. Per questo dicevo che sarebbe necessario trovare una sintesi, un momento di equilibrio tra le due esigenze. Auspichiamo la giornata di oggi aiuti ad andare in questa direzione.

Asli è impegnata nell’organizzazione delle olimpiadi di italiano, dunque un momento agonistico più che valutativo. Sull base di quello che emerge dalla manifestazione,  che opinione avete della conoscenza dell’italiano nel mondo scolastico?
La situazione non è rosea. È evidente che non parliamo dei 60 finalisti che arrivano a Firenze e che per questo motivo sono i migliori, ma delle scremature fatte all’interno dei singoli istituti. A questo livello il quadro non è dei più felici. Non per questo voglio mettere sul banco degli imputati gli insegnanti, che hanno tutta la nostra stima e molti dei quali mostrano grandissima preparazione.

Allora da che cosa dipendono le difficoltà?

In primo luogo, dallo scarso numero di ore disponibili: la riforma Gelmini ha ridotto ulteriormente lo spazio dell’italiano, lasciando però intatti programmi di notevole entità e mettendo i docenti in condizione di dover sottrarre alla letteratura il tempo dedicato alla lingua, o viceversa. Ci vorrebbero più ore, distinguendo nettamente i due insegnamenti. Non per moltiplicare il numero dei docenti, ma per dar loro maggiori possibilità di incidere.

Come sono cambiate la lettura e la scrittura dei giovani?
Oggi i ragazzi scrivono e leggono moltissimo. Leggono, in modo poco o per nulla guidato, tutto quello che trovano in internet. Quest’ultimo è una fonte ricchissima, ma un giovane spesso non sa che cosa è utile e cosa no.

La ricaduta, dal punto di vista della padronanza della lingua, tra lettura a video e lettura tradizionale è diversa?
Il problema non è tanto il mezzo, ma ciò che il mezzo trasmette. Anche su un tablet si possono leggere libri. Il rischio viene da una consultazione esclusiva di testi predisposti per internet, che, richiedendo una lettura facile e veloce, presentano una scrittura “spezzata”, fatta di periodi monoproposizionali, di spezzoni di frasi separate dal punto fermo e non di quella sintassi e di quell’argomentazione più articolate che sono proprie della scrittura complessa. La stessa che ancora oggi è richiesta nel mondo del lavoro.

Ha detto poc’anzi che la situazione dell’italiano nei giovani non è delle migliori; poi ha detto anche che i giovani oggi “scrivono moltissimo”. Non dovrebbero per questo scrivere meglio?
In senso generale, mai come in questi anni l’italiano ha goduto di buona salute. Basta pensare che appena 50 anni fa l’italiano non era ancora la lingua di tutti. Non sono quindi pessimista in senso assoluto, al contrario. Certo, e-mail e sms non sono il tipo di scrittura che serve ad entrare nel mondo del lavoro, però i nostri giovani adoperano il mezzo scritto più dei loro genitori, questo è incontestabile. Lo fanno in italiano; è una varietà sui generis, certo, ma è sempre italiano.

(Federico Ferraù)

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