Caro direttore,
ho letto l’intervista al ministro Carrozza uscita ieri sul Corriere, nella quale la responsabile dell’Istruzione parla di necessario “equilibrio” nella formazione delle classi con alunni italiani e stranieri, cita come “un po’ estremi” i casi in cui i genitori ritirano propri figli e aggiunge che “i casi singoli vanno trattati singolarmente, resta alla scuola e al ministero il compito di investire nella formazione degli insegnanti perché possano dare un supporto ai ragazzi e alle famiglie e continuare il cammino verso l’integrazione”.
Ho letto anche le stime da Voi pubblicate riguardo alla percentuale del 33% di bambini italiani iscritti in una prima classe di una scuola primaria della bergamasca a fronte di una forte maggioranza di bambini stranieri (14 su 21).
Vorrei rettificare tali stime e presentare – per usare le parole del ministro – il mio “caso singolo”.
Sono la mamma di un bambino che a Milano lo scorso anno ha frequentato una quarta elementare, dove i bambini italiani erano 4 su 24: non il 33% – quindi -, ma il 16,6%. I bambini stranieri appartenevano a tre etnie principali: araba, cinese, sudamericana. Pochissimi parlavano l’italiano, in maniera comunque insufficiente ad acquisire i contenuti propri del livello scolastico a cui erano iscritti per età anagrafica. La maestra ha potuto decidere autonomamente d’insegnare esclusivamente lingua italiana, bloccando così lo svolgimento del programma scolastico previsto per la classe. E quando ho chiesto spiegazioni all’insegnante in riferimento alla sorte dei quattro bambini italiani, la risposta è stata: “Si arrangeranno”.
Segnalo almeno sei livelli di irresponsabilità rispetto al destino dei nostri figli. Un livello costituzionale (Dichiarazione universale dei diritti umani Onu; Costituzione italiana art. 34) al quale io, cittadina italiana, mi vedo negato dallo Stato ciò che lo Stato dichiara di garantirmi. Un livello economico al quale io, cittadina italiana, pago allo Stato le tasse per un servizio, che mi viene negato e che viene invece garantito a chi, spesso, le tasse non le paga. Un livello dirigenziale al quale il dirigente scolastico, che dovrebbe garantire l’erogazione stessa del servizio, che giustifica l’esistenza della struttura da lui diretta oltre che la sua stessa funzione, prima ancora della qualità del servizio, non ha alcuna capacità decisionale su quanto svolto in classe. Un livello istruttivo al quale l’insegnante può decidere di bloccare lo svolgimento del programma scolastico per insegnare ciò che il programma non prevede. Un livello organizzativo al quale i genitori, al di là della presenza formale di organi rappresentativi, non hanno di fatto alcuna voce in capitolo in merito allo svolgimento del programma, e addirittura possono sentirsi dire: “Suo figlio? Che si arrangi. Con i tagli del personale e di fondi integrativi, che sono stati fatti, io faccio fin troppo rispetto a quello che mi viene riconosciuto”.
Infine un livello sociale non sanzionabile al quale i genitori stranieri possono permettersi di non insegnare l’italiano ai propri figli prima di iscriverli nella nostra scuola di Stato, e volte anche di non volerlo insegnare. Se ci trasferissimo in Francia, in Germania o negli Stati Uniti dovremmo insegnare il francese, il tedesco o l’inglese ai nostri figli, prima di iscriverli a scuola, mentre in Italia non è così.
Chi paga questo carico di irresponsabilità? I nostri figli.
A quale prezzo? A prezzo della loro vita.
È giusto? No. Per questo ho ritirato mio figlio dalla scuola. Il millantato razzismo di alcuni titoli di questi giorni è solo la copertura di un apparente buonismo, che con la giustificazione dell’integrazione di fatto mette una seria ipoteca sulla vita dei nostri figli. Non c’è spazio per una sfida: la battaglia è già stata persa.
Lettera firmata