Leggo con piacere dall’articolo di Antonello Vanni la centralità e l’importanza della figura paterna nell’educazione dei figli. Ritengo questo uno dei temi più significativi sui quali è doveroso dibattere, specie nella società che viviamo e contribuiamo a modellare così spesso traboccante di paternalismo ma povera di paternità. Ognuno di noi, d’altronde, non sarebbe la persona che è se non avesse avuto l’impronta – reversibile ma incancellabile – della figura paterna che il buon Dio ha riservato per lui. Basterebbe questo per capire che parliamo di qualcosa di grosso.



Chi è, dunque, il padre? Nella formazione personale e psicologica dell’individuo il padre è colui dal quale dipende – giorno dopo giorno, dal primo giorno – la figura non ancora autosufficiente del bambino o del giovane ragazzo. Il padre rappresenta, per il figlio, l’incarnazione incosciente di una totale dipendenza. Non saputa ma vissuta, non affermata ma esperita. Non è un caso che la Chiesa da duemila anni ci fa chiamare “Dio” con lo stesso nome con cui chiamiamo nostro papà: padre, appunto. Così come neppure è un caso che la nazione nella quale siamo nati – per un paradosso soltanto apparente – siamo abituati a chiamarla madre patria: quantunque al femminile, è il tema della paternità che torna centrale (anche perché siamo sempre stati, e ancora siamo, un popolo profondamente maschilista). Comunque lo si voglia intendere, il padre rappresenta la figura che spiega e dà corpo alle nostre origini. 



Nello stesso tempo, proprio per questo, il padre è anche la figura di riferimento ultima per il ragazzo, cioè colui al quale si risponde delle proprie azioni. Se esso è identificato in colui dal quale dipendiamo, è inevitabile che rappresenti al contempo anche il punto di riferimento e il termine di paragone con cui il ragazzo si confronta. “Dove vai?”, “con chi esci?”, “come è andata oggi a scuola?” sono solo alcuni piccoli esempi della legittimità che il genitore ha di chieder conto al figlio. 

Ne consegue che la figura paterna – in ogni contesto educativo, sia esso la famiglia o la scuola – ha una funzione non solo importante ma determinante per la formazione totale e completa dell’educando. Quando il bambino diventerà un adolescente e scoprirà che il padre, prima osannato, appare ora insufficiente a fornire ragioni adeguate sulle origini e lo scopo ultimo della sua esistenza, è comunque di nuovo alla figura del papà cui si accosterà per comprendere e vivere il rapporto con Dio. Il ragazzo, infatti, capirà cosa vuol dire il rapporto con Dio a partire dal rapporto con la figura maschile che riconosce più centrale nella sua vita. Non può fare altrimenti, cosciente o non cosciente: per tutti noi è stato ed è così. 



Quando questa figura viene a mancare – come in molte famiglie attuali – oppure quando essa è in forte e pericolosa minoranza – come nelle odierne scuole italiane, dove l’assenza dell’elemento maschile si riconosce anche dalla difficoltà di una sfida ferma e semplice che punti dritto al cuore dei giovani – si determina un disorientamento profondo nel ragazzo, che non è più introdotto al riconoscimento del legame originario e affettivo ultimo della propria esistenza. Non ha più, cioè, un termine di paragone adeguato con cui vivere il rapporto con il Padre.

Di nuovo: la Chiesa – antichissima e modernissima come sempre – queste dinamiche le conosce da tempo e non a caso ci invita a chiamare il suo capo papa, oppure Santo Padre. Dal punto di vista storico-etimologico il termine “papa” è infatti una parola di origine greca dal cui vocabolario è definita “parola onomatopeica che significa padre”, papà in senso familiare e affettuoso. Era il termine usato nei primi secoli del cristianesimo per rivolgersi ai membri del clero e soprattutto ai vescovi per avvicinare l’infinito; la successiva variante orientale è divenuta il termine patriarca (peraltro già in uso nella tradizione ebraica). 

Gli effetti della carenza di figure maschili nelle famiglie e nelle scuole non sono immediati, hanno un raggio d’azione temporale a medio-lungo termine. Ma occorre non chiudere gli occhi dinanzi a questa emergenza, che già da tempo fa vedere i suoi frutti. Non possiamo combattere ideologicamente il Sessantotto perché ha distrutto l’autorità dei padri (i padri miei, come li chiamerebbe Gaber), e poi continuare ad avallare una cultura che fa dell’appiattimento delle differenze tra uomo e donna un perno della presunta moderna uguaglianza, quando altro non è che una maschera del potere per indebolire i legami esistenti e non permettere che ne nascano di nuovi.

Non basta difendere teorie giuste per dare il nostro contributo di uomini e di educatori: occorre avere il coraggio di imparare dall’esperienza e riconoscere che il padre e la madre – proprio a partire dalle differenze che li completano – sono entrambe figure essenziali nell’educazione dei giovani, e nessuna delle due può e deve mancare. Le spalle del papà e il seno della mamma.

(Lorenzo Ettorre)