All’inizio di un nuovo anno scolastico è normale farsi coinvolgere dall’entusiasmo e dall’urgenza delle cose da fare. Non bisogna tuttavia cedere alla tentazione di obbedire senza riflettere a quelle parole d’ordine che vorrebbero modellare la scuola secondo i desiderata di una certa opinione pubblica veicolati da mass media sempre più presuntuosi e invadenti. Mi riferisco a un vero e proprio “tormentone” dell’ultimo decennio, vale a dire la digitalizzazione della didattica. Lavagne elettroniche, pc e iPad sono sempre più comuni negli ambienti scolastici (grazie anche a costose sperimentazioni), andandosi ad aggiungere ai telefoni cellulari che tutti gli studenti, a partire dalla più giovane età, hanno in tasca (in genere pure accesi…). La qualità di un istituto è spesso valutata sulla base della pervasività di tali tecnologie, senza che nessuno si sia mai preoccupato di giudicare approfonditamente l’efficacia didattica di tali strumenti. Un’efficacia che è in realtà piuttosto scarsa, soprattutto se si considerano i rapporti tra i costi e i benefici.
A sostenere tale tesi paradossale con convincenti argomentazione e una sufficiente documentazione è un ricercatore italiano che vive e lavora a Parigi, Roberto Casati, che di tecnologie didattiche si occupa da anni e non solo a livello teorico, visto che ne fa uso in prima persona nella propria attività docente. Il suo libretto, che tutti coloro che si occupano di istruzione e formazione dovrebbero leggere, anche perché è assai godibile, si intitola “Contro il colonialismo digitale. Istruzioni per continuare a leggere” (Laterza, 2013).
Si tratta, come si evince dal titolo, di un pamphlet, il quale però evita toni polemici e giudizi tranchant, cercando sempre una via media tra “apocalittici” e “integrati”. Ciò non significa che Casati non si preoccupi di smantellare con chiarezza alcuni tra i luoghi comuni pedagogici più influenti, tra i quali il più pernicioso è quello che vuole tracciare una netta separazione tra vecchie e nuove generazioni attraverso la categoria di “nativo digitale”. Ebbene, i nativi digitali non esistono poiché non esiste una specifica intelligenza digitale ma solo delle competenze pratiche assai elementari, se non addirittura delle abitudini (effettuare scelte binarie cliccando o non cliccando su un link ipertestuale, ad es.) che chiunque, anche se ottantenne, potrebbe acquisire con un po’ di pratica. In definitiva il senso dell’espressione “nativi digitali” mi sembra sia quello di giustificare una netta cesura nella metodologia e nei contenuti della trasmissione del sapere in nome del principio che il nuovo è sempre meglio del vecchio.
Una delle presunte prove di esistenza di nuove forme di intelligenza digitali è il “multitasking”, la capacità di perseguire contemporaneamente diversi obiettivi attraverso attività differenti. Peccato che il multitasking non esista. Esiste sicuramente la capacità di fare diverse cose contemporaneamente (quello che sto facendo io mentre scrivo questo articolo su un pc o quello che state facendo voi leggendolo su un supporto qualsiasi).
Ma di queste solo una richiede la nostra attenzione, le altre vanno avanti automaticamente o per abitudine. L’attenzione umana (a differenza di quella divina, probabilmente) è capace di concentrarsi su una sola cosa alla volta. Galileo diceva qualcosa di simile quando affermava che l’essere umano conosce come Dio intensivamente e non estensivamente. Di conseguenza cercare di condurre contemporaneamente più attività che richiedono la nostra attenzione non significa essere capaci di fare più cose contemporaneamente ma fare più cose “male”. Si chiama “task switching”, ed è parente prossimo dello zapping che tutti conosciamo.
Casati fornisce anche un’informazione che ci aiuta a capire come funziona il colonialismo digitale. L’espressione “nativi digitali” è stata resa popolare da un articolo di Marc Prensky del 2001. Ebbene, sapete che mestiere faceva nel 2001 il sig. Prensky? Lo psicologo? L’informatico? Il pedagogista? No, sviluppava videogiochi. Alla faccia del confilitto di interessi…
Un altro mito che Casati si preoccupa di decostruire è quello secondo il quale il web rappresenterebbe un’enorme riserva di conoscenza. Peccato che la conoscenza sia qualcosa di assai diverso dall’informazione, che il più delle volte l’utente della rete sia poco critico rispetto all’affidabilità dei siti da cui trae le informazioni e che la maggior parte della tecnologia digitale sia disegnata non per informare ma per coinvolgere emotivamente.
Non vado oltre nelle esemplificazioni per non negare al futuro lettore di Casati il piacere della scoperta di altri miti del mondo incantato del digitale. Mi soffermo su alcuni punti fondamentali dal punto di vista culturale.
Il mondo incantato del digitale si regge su un assunto che la filosofia dello scorso secolo ha più volte evidenziato quale principio fondamentale del mondo governato dalla Tecnica: “tutto ciò che si può fare, si deve fare”. Se una nuova applicazione scientifica o un nuovo ritrovato tecnico ci mette in condizione di fare una cosa, questa cosa deve essere fatta. La mentalità comune pone gli educatori e i formatori continuamente di fronte a dati di fatto rappresentati da nuove tecnologie che, per il semplice fatto di esistere e di rendere possibile fare certe cose, acquisiscono la normatività di un imperativo morale, senza alcuna riflessione critica.
Il secondo assunto su cui si regge il mondo incantato di cui sopra è che lo strumento sia neutro. Ciò è falso in particolare quando in ballo c’è la comunicazione umana e i suoi media. Come già disse il grande Marshall McLuhan decenni fa: il medium è il messaggio. Mi spiego. Molte nuove tecnologie didattiche vengono introdotte nella scuola come strumenti neutri la cui efficacia dipende dal modo in cui sono usate. Esse invece modificano radicalmente l’ambiente comunicativo e di conseguenza il contesto educativo.
Leggere un libro elettronico caricato su un tablet, ad esempio, il quale consente di ricevere ogni due per tre un messaggio, di navigare esplorando nuovi e affascinanti mondi virtuali, di seguire le ultime evoluzioni del calciomercato e via dicendo, distrugge il piacere e il senso stesso della lettura perché il libro (che, sino a prova contraria, è lo strumento fondamentale di conoscenza di cui disponiamo) è inserito in un ambiente assai poco accogliente, pieno di “vicini” rumorosi, invadenti e seducenti.
La mentalità comune continua a lanciare il proprio mantra: “occorre portare il mondo dentro la scuola attraverso la tecnologia”. Il buon senso invece suggerisce sempre più timidamente: “difendi la scuola dall’ammaliante aggressività della tecnologia”. E questo non per tenere il mondo fuori dalla scuola, ma proprio per il motivo opposto, per permetterne una scoperta graduale, capace di coglierne i valori estetici e morali, di indagarne il senso, di coglierne le connessioni segrete. Una scoperta guidata da esseri umani in carne e ossa, con tutti i loro pregi e difetti. La scuola oggi deve essere protetta come ambito “eccezionale” rispetto alla vita quotidiana, caratterizzata dall’invadenza dei mass media e dei gadget elettronici. La scuola dovrebbe piuttosto essere il luogo dove si pongono domande che “fuori” di solito non trovano accoglienza, ad esempio qual è il senso dell’appliczione delle tecnologie didattiche. Perché un senso c’è, e chi scrive queste tecnologie le usa (soprattutto “fuori” dalla classe). Ma questo senso non è dato, occorre trovarlo attraverso il lavoro di un’interrogazione che ovviamente dovrebbe coinvolgere innanzitutto i docenti. Ogni tanto, ci dice Casati, a scuola occorrerebbe trovare l’occasione di deliberare non solo in merito ai mezzi, ma ai fini. Hic Rhodus, hic salta.