Caro direttore,
ho trovato l’articolo di ieri dedicato ai nativi digitali molto stimolante; per questo le mando di seguio alcuni spunti di riflessione, tratti da una personale esperienza.  

Sotto la guida di Andreas Dierssen, che dirige l’accademia Arnold Dannenmann, fondatore del CJD, un villaggio cristiano della gioventù che offre in Germania chance di lavoro non profit e scuola a 150mila giovani ed adulti, si è tenuto a Berlino dal 18 al 20 settembre un simposio dal titolo: “Social media e pedagogia. Significato ed influenza sui giovani”.



Professori di diverse università e scuole di studi superiori (Siegen, Colonia, Kassel, Paderborn, Hildesheim e Münster) hanno spiegato ad insegnanti ed educatori del CJD i limiti e le chance dei social media.

Stefan Piasecki (Scuola superiore del CVJM in Kassel) ha in primo luogo cercato di far comprendere che l’annuncio cristiano ai giovani è possibile anche con e nei social media (facebook, twitter…), non tanto mediante un uso forzatamente “missionario” di essi, ma nel riconoscimento che essi sono un “luogo” in cui i giovani si trovano e cercano di porre la domanda di senso riguardante il proprio io e non solo per svagarsi. Ha così spiegato che ciò noi chiamiamo normalmente “realtà virtuale”, quando pensiamo alla rete, non è in primo luogo “finzione”, ma “ampliamento” della realtà stessa, così come una biblioteca può ampliare i confini di interesse dei giovani.



Dagmar Hoffmann (Siegen) e Angela Tilmann (Colonia) hanno cercato di far comprendere che questa realtà dei social media è per molti giovani, che sono nati nell’epoca digitale (digital natives) appunto una realtà e non finzione. La rete non è un mezzo (o almeno non solo), ma un luogo di incontro. Luogo di incontro in cui una gioventù “utilitaristica”, che si chiede cosa mi serve ciò che faccio e che gioia ne ho, cerca di fare ciò che forse noi adulti intellettuali facciamo con i libri o con musica classica: vivere la cultura come ricerca di senso e godimento.

Bernward Hoffmann (FH di Münster) e Joachim Grisbaum (Hildesheim), più di altri, sono riusciti a muoversi non solo nel ductus sociologico, che registra fatti, piuttosto che pensarli sinteticamente, ed hanno posto domande interessanti ai pedagoghi. In primo luogo la distinzione tra “sapere” ed “informazione”. La rete offre informazioni, ma solo nel rapporto educativo tra persone – questo può accadere solamente in modo parziale nella rete – le informazioni diventano sapere verificato e da verificare. 



Questi giorni di simposio mi hanno fatto capire, e questo coll’aiuto di tutti i professori invitati, anche quelli non citati in questo articolo, che la domanda, che spesso i giovani si pongono, per esempio nel mio corso di filosofia nella decima classe del mio liceo – che è una delle realtà scolastiche del CJD – nella Sassonia-Anhalt (insomma con sedicenni e quindicenni), all’inizio di questa settimana: chi sono io?, deve tenere conto anche dell’io elettronico che ci costruiamo nei social media. Ovviamente non abbiamo due io, ma nella rete si sviluppano dinamiche proprie e il rischio educativo deve rispondere anche ad esse. 

Una domanda che mi ha colpito in modo particolare, tanto per non essere troppo generali ed astratti, è la seguente: come educare se stessi e gli altri in una realtà, quella della rete, che non conosce il “dimenticare”? Hans Urs von Balthasar nella sua “Teologica”, nel primo volume, dice che il “dimenticare”, dimensione, a livello gnoseologico, fraterna al “perdonare” a livello etico e religioso, è una dimensione centrale del sapere, del formulare frasi. Senza “dimenticare” ciò ho detto all’inizio di una frase, non mi sarebbe possibile continuarla. Ora, nella rete tutto è presente e noi possiamo essere “legati” ad una fase del nostro essere o ad una dimensione di esso, che ha certo un senso nel nostro modo di vivere, ma che preso per sé può essere o diventare un esagerazione, quealcosa che sarebbe stato meglio “dimenticare” o “perdonare”. 

Qui credo che ci sia una grande sfida per gli educatori. Se incontrano con simpatia i giovani nel mondo della rete, pur nel rispetto dei loro spazi di autonomia, possono fare una proposta educativa non moralistica, ma disposta ad una vera “compagnia” anche nel web, in modo che la riflessione e la rappresentazione del proprio io tengano il più possibile conto di tutti i fattori in gioco nella realtà. Questo sia in una dimensione educativa, che delimiti l’uso della rete e che faccia presente che un certo lavoro (per esempio a scuola) non ha immediatamente una gratificazione come nel dialogo continuo con coetanei e no, permettendo quella gioia che nasce solamente quando ci si è dedicati ad un lavoro che ci è costato molto tempo. Sia nella dimensione propositiva, anche nell’uso dei social media stessi: per esempio che “il non fare agli altri, ciò che non vuoi che sia fatto a te” vale anche in facebook (Bernward Hoffmann della FH di Münster), etc. E che le strutture dell’umano, per esempio quella gnoseologica, con il fatto che pensare significa anche “dimenticare”, non possono essere “saltate” senza far esplodere l’umano stesso.

(Per me, nel mio uso di facebook, significa per esempio la necessità di tempi di silenzio (come  l’avvento e la quaresima) in cui cerco di vivere e comprendere ciò che Andreas Dierssein ha detto, in una delle meditazioni con cui è stato iniziata la giornata di lavoro di venerdì: il Logos si è fatto “carne” (Gv 1,14) è ultimamente può essere solo incontrato e gustato quando la “carne” è in gioco).

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