Nei giorni scorsi, in una scuola di Perugia, un professore di Religione ha consegnato un questionario ai suoi studenti chiedendo loro di indicare con un numero da 1 a 10 l’ordine di gravità di alcune colpe di cui una persona si può macchiare. Tra queste c’era anche quella di “omosessualità”. L’episodio non è sfuggito alle associazioni gay e lesbo della città che, radunate sotto la sigla “Omphalos”, hanno chiesto di intervenire all’ufficio antidiscriminazioni del ministero delle Pari Opportunità; inoltre l’Unione degli Studenti ha sollecitato il ministero dell’Istruzione a prendere in considerazione interventi stigmatizzanti e sanzionatori nei confronti dell’accaduto. Questo fatto è una buona occasione per fare alcune osservazioni importanti.



Infatti, nelle istanze di fondo che li muovono, le persone omosessuali chiedono di vivere con libertà la loro condizione, senza sentirsi repressi dalla società in virtù di pregiudizi religiosi e culturali che mettano in discussione la propria esistenza. La domanda che occorre fare è molto semplice: perché essi chiedono il permesso di esistere? Perché chiedono alla legge di garantire loro quella serenità che solo la coscienza può assicurare? 



Molti potrebbero rispondere che la libertà che chiedono è per coloro che vivono la loro condizione da indifesi, in preda a sottili e perversi giochi psicologici e sfottò, incapaci di uscire da una prigione che il perbenismo imperante legittima e tende a chiudere a chiave. Io capisco queste cose. Ma capisco anche che leggi che tutelano le persone discriminate, maltrattate e offese, ci sono già e nessuno ha il coraggio di alzarsi e denunciare. Perché? Nessuno deve essere discriminato. Ma perché questa non sia una bella frase è necessario anzitutto che le persone siano riconciliate e libere con se stesse, non che esista una legge che dica che l’orientamento omo o lesbo rende simili queste persone ai panda tutelati dal Wwf. Perché essi non sono panda, sono uomini. Come lo sono io. E io non chiedo una legge che dica che offendere un prete o un cristiano è più grave che offendere chiunque altro. Io sono prete e sono cristiano. E sono felice. Anche se il mondo intero non mi approvasse, nessuno potrebbe togliermi o darmi la mia dignità.



Quando criticano la Chiesa, le associazioni che tutelano i diritti delle persone omossessuali sembrano non capire che nessun peccato si cancella per legge. Finché il cristianesimo esisterà e finchè la Chiesa di Cristo sarà sulla terra sempre esisterà il peccato. E nessuno può chiederci di togliere certi comportamenti dalla colonna dei peccati. Perché il peccato non è un invenzione della Chiesa, il peccato è qualcosa che uno scopre nel rapporto vivo con Cristo. Peccato non è una parola senza appello da temere come la peste. Io sono un peccatore e non mi vergogno. 

Non sbandiero con orgoglio i miei peccati, ma capisco che ogni peccato è il luogo dove Dio mi incontra e mi ama, donandomi quella forza che – unica – è capace di farmi guardare con verità e con amore la mia vita, senza paura di chiamare le cose con il loro nome. Quello che questa gente non capisce è che essi non hanno un problema con la Chiesa, hanno un problema con la realtà. Chiediamo pure allo Stato di dire che il cielo è marrone e diciamolo tutti in coro. Ma il cielo non smetterà mai di essere azzurro. Questo vale anche per l’omosessualità.

Certamente il professore di Perugia ha usato una parola, “colpa”, che fa parte di una precisa teologia morale con cui la Chiesa ha chiamato certi comportamenti in un certo determinato quadro storico. La situazione presente, invece di paralizzare tutti in posizioni sterili, dovrebbe spingere i credenti a ritrovare le ragioni della fede e impararle a comunicare con parole nuove. Noi non smetteremo mai di dire che certe cose sono “peccato” perché la morale non cambia col tempo e con il luogo, ma possiamo smettere di ferire gli altri e di mancar loro di carità con le nostre categorie. Il nostro scopo è che l’altro, quando ci incontra, senta su di sé tutto lo sguardo di Cristo: “Nessuno ti ha condannato? Neanche io ti condanno. Va’ e non peccare più”.

È giunto il momento in cui noi cristiani dobbiamo smetterla di chiedere alle leggi di fare ciò che non riusciamo a fare con la nostra testimonianza: ossia provocare nell’altro un fascino così grande per Cristo da spingerlo, senza chiederlo, alla conversione vera del cuore, dei sentimenti, dei comportamenti. Troppe volte abbiamo trattato lo Stato come nostro “braccio secolare” a cui demandare la nostra incoerenza per trasformarla in legge. Siamo noi a dover ricomprendere le ragioni della fede. Siamo noi a doverci convertire. Siamo noi che dobbiamo smetterla di dividere il mondo tra buoni e cattivi. Tutti in Cristo Gesù siamo uno e non c’è più né Giudeo né Pagano, né schiavo né libero. 

Forse a Perugia hanno esagerato, forse davvero tanta gente non capisce che quando diciamo certe cose noi cattolici lottiamo per il futuro dei nostri figli e del nostro paese. Ma questo non è un buon motivo per fermarci e smettere di convertirci. Forse è davvero il momento di un serio esame di coscienza. Prima che al ministero o alle associazioni di categoria mi sembra venuto davvero il momento di guardare a Roma dove c’è un uomo che, con pochi stracci bianchi addosso, ci sta davvero indicando una strada.