Il decreto legge “L’istruzione riparte”, pubblicato in Gazzetta Ufficiale (DL n. 104/2013) e di cui il ministro Carrozza vorrebbe accelerare i tempi di attuazione (già firmato il provvedimento sul comodato d’uso di libri e supporti e-book), entra in più punti in merito alle dinamiche riguardanti l’insegnamento e l’apprendimento. Lo fa cambiando certi parametri di riferimento, rispetto quantomeno ai più recenti processi di riforma della scuola, che allo Stato assegnano l’indicazione dei livelli essenziali di apprendimento, alle istituzioni scolastiche la delineazione del Piano dell’offerta formativa e, infine, ai docenti la costruzione dei percorsi di insegnamento/apprendimento in attenta considerazione della situazione degli alunni. 



Il decreto va giù “tranchant” nel campo del potenziamento dell’offerta formativa delle scuole e della formazione dei docenti, senza richiami particolari ad un qualche preambolo condiviso con chi la scuola la fa sul campo (docenti, dirigenti, loro organismi associativi e rappresentativi). La lettura dei bisogni sottesa al documento implica una idea di scuola frantumata che deve essere aggiustata in alcuni nuclei.



Ecco che, da una parte, si aggiunge un’ora di insegnamento di “geografia generale ed economica” per potenziare l’offerta formativa negli istituti tecnici e professionali, per consentire il tempestivo adeguamento dei “programmi” (dunque esistono ancora?); mentre, dall’altra, si promuove la formazione continua dei docenti grazie alla “realizzazione di progetti didattici nei musei, nei siti di interesse archeologico, storico e culturale o nelle fondazioni culturali” e ancora mediante la “formazione obbligatoria” del personale scolastico in un serie di settori che sono chiaramente indicati (potenziamento di conoscenze e competenze degli alunni più deboli, processi di digitalizzazione e innovazioni tecnologiche, percorsi di alternanza scuola-lavoro). 



Questa della “formazione obbligatoria” è proprio la conferma di una visione terapeutica, per così dire, del sistema dell’istruzione e dei suoi operatori che fa da sfondo all’intero decreto. Innovativo per quel tanto (se non proprio tanto, comunque è qualcosa) che si è deciso di investire in termini economici; alquanto direttoriale negli aspetti di cura delle presunte deviazioni dallo scopo che dovrebbe avere una struttura dedita all’inclusione e al superamento del disagio sociale, com’è la scuola ideale che in filigrana cogliamo dietro la lettera del decreto. 

Non è un caso che quando si vanno a definire i partner dell’operazione “formazione del personale” si va a parare su “convenzioni con le università statali e non statali, da  individuare nel rispetto dei principi di concorrenza e trasparenza” (art. 16). Come a dire che il docente non ha una cultura propria, maturata nel tentativo di comunicare agli alunni contenuti di apprendimento che richiedono rigore scientifico e ragionevole attinenza ai recipienti che li accolgono. 

La cultura vera e propria, anche nel campo della didattica, sarebbe piuttosto il sapere elaborato e codificato che viene dall’università (sebbene, come è dimostrato, essa non abbia competenze sulla dinamica di elaborazione dei piani formativi delle scuole). 

In questo modo si allontana l’università dalla scuola, dove invece sarebbero necessarie sinergie e collaborazioni. Infatti, seppure malmessa, la scuola (ancora quella italiana lo è) si pone come l’unico ambito in cui gli oggetti del sapere sono resi trasmissibili alle coscienze in via di sviluppo. La scuola ha (meglio: dovrebbe avere) questa ineliminabile finalità, a qualunque livello di età si rivolga la sua offerta formativa: quella di rendere un’ipotesi di ricerca (cioè un percorso formativo) comprensibile e assimilabile per chi lo riceve, e dunque partecipabile. L’università dovrebbe essere parte attiva di questa ri-creazione dei contenuti del sapere, sostenendo e correggendo senza sostituirsi ai più diretti responsabili che sono gli insegnanti. Semmai aiutandoli a rinnovarsi e a qualificarsi ulteriormente nelle materie o attività che li riguardano. E certamente le scuole e gli insegnanti devono essere valutati. Ma non come estensori di piani decisi altrove, quanto piuttosto come protagonisti degli insegnamenti che propongono. 

In questo senso, se di formazione “obbligatoria” si dovrà trattare nel prossimo periodo (che però andrebbe premiata riconoscendo la professionalità di chi si aggiorna), perché non affidarla anche alle scuole stesse, a quelle reti che hanno dimostrato di avere effettivamente aggiunto valore alle conoscenze e competenze degli alunni, alle associazioni professionali riconosciute e che si impegnano ad elevare la qualità della docenza, anche per conto del Miur, coprendone oggettivamente le carenze sul versante della formazione e dell’aggiornamento dei più diretti responsabili della conduzione delle classi? 

La formazione dei docenti potrà diventare in questo modo un punto caldo del rinnovamento del sistema, senza escludere coloro che già stanno assumendosi una responsabilità in questo senso: non solo nella direzione degli interventi di soluzione dei casi problematici socialmente o culturalmente, ma anche di accompagnamento di alunni che desiderano sinceramente imparare i linguaggi della realtà per fruire di conoscenze che non li abbandonano.

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