Le recenti dichiarazioni del ministro Carrozza nell’ambito del forum organizzato dall’Ansa ripropongono il tema, già affrontato di petto dal ministro Profumo, del valore legale della laurea e più in generale del titolo di studio.
Speriamo che questa sia la volta buona e che finalmente ci si convinca a superare un tabù che sta diventando un fattore di immobilità del sistema universitario e di mancata crescita del sistema industriale. Il nostro è infatti un sistema schizofrenico poiché il valore che le università e il mondo della scuola conferiscono ai titoli di studio non trovano un riconoscimento nel mondo del lavoro e ciò non solo ora, cioè in tempo di crisi, ma da un bel po’ di tempo.
Vediamo gli ultimi dati.
Una delle ultime indagini condotta dal Consorzio AlmaLaurea (XIV indagine – 2012) e riportata nel Rapporto sulla Condizione occupazionale dei laureati sottolinea come “aumenta la disoccupazione (in misura superiore rispetto all’anno passato) fra i laureati triennali: dal 16 al 19% (l’anno precedente l’incremento aveva superato di poco il punto percentuale). La disoccupazione lievita anche, e risulta perfino più consistente, fra i laureati specialistici, quelli con un percorso di studi più lungo: dal 18 al 20% (la precedente rilevazione aveva evidenziato una crescita inferiore ai 2 punti percentuali)“.
A questo punto qualcuno potrebbe dire: effetto della crisi.
Ebbene, no: come sottolinea il Rapporto, tale disoccupazione è a rischio di divenire prolungata poiché essa è in parte ante crisi: “tra il 2004 e il 2008, quindi negli anni precedenti alla crisi, tranne che in una breve fase di crescita moderata, l’Italia ha fatto segnare una riduzione della quota di occupati nelle professioni ad alta specializzazione, in controtendenza rispetto al complesso dei paesi dell’Unione Europea. Un’asimmetria di comportamento che si è accentuata nel corso della crisi: mentre al contrarsi dell’occupazione, negli altri paesi è cresciuta la quota di occupati ad alta qualificazione, nel nostro paese è avvenuto il contrario“.
Non solo ma, in aggiunta, si aggravano i problemi strutturali che ci portiamo dietro dall’Unificazione, perché aumenta il divario Nord-Sud.
Infine, sul tema qui in esame si registra che l’efficacia del titolo universitario, nel senso di “utilizzo, nel lavoro svolto, delle competenze acquisite all’università e la richiesta, formale o sostanziale, della laurea per l’esercizio della propria attività lavorativa risulta in calo rispetto alla precedente rilevazione: il titolo è almeno efficace (ovvero molto efficace o efficace) per 51 triennali su cento (oltre 2 punti percentuali in meno rispetto all’indagine 2010) e per 44 laureati specialistici su cento (-1 punto). L’efficacia massima (81%) si riscontra tra gli specialistici a ciclo unico (-3 punti rispetto ad un anno fa)“.
Perché, visti i dati (peraltro costanti) non si aggredisce il problema del valore legale? La risposta sta a mio avviso nell’equivoco in cui cadono coloro che ostinatamente continuano a difenderlo e che consiste nel pensare che attraverso il valore legale si raggiunga l’uguaglianza.
Nulla di più sbagliato. Il principio che ispira il meccanismo del valore legale, infatti, è quello della “fede” pubblica. Siccome il singolo non ha gli strumenti adeguati per verificare se la persona che vuole esercitare una certa professione possiede effettivamente le competenze, allora lo Stato si assume tale compito allo scopo, appunto, di proteggere la collettività – diremmo oggi – dalle “asimmetrie” informative. Ed è proprio la ratio della protezione della fede pubblica che sta alla base della disciplina delle professioni “regolamentate” attraverso l’inserimento in Albi tenuti da Ordini e Collegi.
L’uguaglianza del titolo attiene a tutt’altra logica, per cui compito dello Stato è quello di garantire che l’istruzione sia terreno di uguaglianza sostanziale: mettere tutti nelle stesse condizioni di partenza e non, invece, secondo la logica del valore legale, assicurare gli stessi risultati.
In altri termini, il valore legale inteso come da noi rischia di diventare un potente fattore di disuguaglianza poiché deprime i più bravi e sopravvaluta i meno bravi, creando per questi ultimi illusioni che poi si scontrano con le richieste del mondo del lavoro, e nei primi la disillusione di vivere in un sistema che non li premia. Non è un caso ma negli ultimi due anni la fuga dei cervelli, anziché diminuire, è aumentata. Quando ci decideremo ad affrontare il problema?