Si è svolta di recente a Roma una tavola rotonda sul tema Valutare i saperi: come accertare la conoscenza della lingua italiana, organizzata da Asli. È solo una delle iniziative di questa associazione, che da molti anni si muove in difesa della conoscenza dell’italiano da parte dei giovani. Agli anni 90 risale la proposta di istituire laboratori di italiano scritto presso le facoltà universitarie, dove la lacuna era cominciata a emergere vistosamente; nel 2009 (insieme alle accademie della Crusca e dei Lincei) è uscito l’importante documento Lingua italiana, scuola, sviluppo che richiama la scuola al compito di portare gli studenti a un “dominio evoluto” della lingua, adatto agli usi professionali e di studio, che non si limiti cioè all’uso funzionale di base. Poi ancora l’insistenza sulla presenza, nei curricoli di studi universitari degli insegnanti di italiano, di discipline non solo letterarie ma anche linguistiche (storia della lingua, linguistica generale e italiana); la proposta di un sillabo di competenze linguistiche per gli insegnanti; la partecipazione all’organizzazione delle Olimpiadi di italiano. Dell’anno scorso è l’impegno, sempre insieme ai Lincei, nei corsi del progetto Italiano scritto e argomentazione, e l’istituzione di una sezione Asli Scuola: sono queste alcune delle azioni sostenute dall’associazione. 



La tavola rotonda è partita da questo retroterra di impegno positivo, e quasi inevitabilmente ha finito con l’interrogarsi sulle prove Invalsi. Tanti i dubbi di carattere generale, molti già noti, riproposti da alcuni dei relatori: aspetti specifici come l’uso di testi letterari “adattati”, la perdurante mancanza di misure di valore aggiunto, le differenze dei contesti in cui le scuole operano, la presenza della prova nell’esame finale del primo ciclo, ma anche la paura di una deriva economicistica della società e della scuola, il disagio di fronte a un certo procedere degli statistici percepito come assiomatico e non dialettico,  il dubbio sulla possibilità stessa di “misurare” il sapere. Eppure, su alcuni punti sembra non ci sia contrasto: l’utilità dei test in generale e il fatto che l’insegnamento è e resta prima di tutto una relazione fra persone, in cui conta l’entusiasmo e la capacità dell’insegnante di accendere un interesse, fatto che nessun intervento di sistema può sostituire. 



Per molti una prova di comprensione “oggettiva” su un testo letterario può essere una violenza, perché la finalità per la quale si legge un romanzo oppure una poesia richiede il coinvolgimento del soggetto e una relazione esistenziale con un autore lontano nel tempo, richiede di “far proprio” un testo (specialmente se letterario), problematizzarlo e ri-leggerlo alla luce delle domande dell’oggi scoprendone lati prima non valorizzati, ecc., e quindi il metodo è diverso: del resto è la capacità di interrogare autonomamente un testo la vera competenza, che è cosa ben diversa dall’essere interrogato con domande sul testo.



La scuola peraltro opera – se così posso dire − una certa violenza di massa sui testi letterari imponendo il modello unico o delle tipologie testuali o della narratologia (come si vede dalle antologie in uso). In questo senso le prove Invalsi richiedono maggiore flessibilità interpretativa di certe “schede di lettura” delle antologie. Personalmente ritengo che lavorare sulle costanti formali dei testi impedisca di cogliere il loro carattere unico di oggetto reale, così che non c’è un soggetto sempre più autonomo di fronte a un oggetto sempre nuovo, ma un eterno minore dipendente da un apparato di regole fornito dall’esterno. Si tratta di un capovolgimento di metodo grave nel modello formativo, e contro il quale invece nessuno dice niente. 

Sono stati riconosciuti alcuni meriti indubbi delle prove Invalsi, come  l’aver riportato all’attenzione dei docenti gli aspetti linguistici e la grammatica, dopo un certo periodo di oblio. Infatti, diversamente dalle prove internazionali, nelle prove nazionali sono presenti aspetti lessicali e morfosintattici della comprensione (aspetti 1 e 4 del quadro di riferimento), e una sezione di grammatica saldamente mantenuta accanto alla comprensione. Le domande strettamente grammaticali in parte riguardano l’uso competente della lingua (per esempio il valore semantico di un prefisso, o le solidarietà lessicali); anche in domande che verificano l’apprendimento scolastico della grammatica è stata riconosciuta una certa innovatività, per il modo in cui le domande vengono poste, senza insistere su aspetti nomenclatori e di pura tassonomia. 

Un altro aspetto interessante è l’attenzione ai testi espositivi, rivelatisi particolarmente impegnativi perché hanno una struttura compositiva meno prevedibile dei testi narrativi. Sulla struttura logico-argomentativa dei testi si lavora  forse ancora troppo poco a scuola, e invece proprio questa dimensione andrebbe rinforzata. È utile conoscere certe caratteristiche intrinseche come la coesione, la coerenza e l’intenzionalità: andrebbero posti all’attenzione degli studenti, nell’insegnamento intenzionale, gli impliciti anche linguistici, i segnali di organizzazione del testo, i connettivi, la struttura logica anche non segnalata da connettivi, il potere strutturante della punteggiatura, le relazioni “retoriche” (es. problema-soluzione, categoria-esempio, tutto-parti, contrasto), la focalizzazione. Si tratta di fenomeni studiati da anni dalla linguistica testuale. Altrettanto interessante è prevedere il progressivo aumento nell’insegnamento linguistico di caratteristiche della lingua “medio-alta”: strutture ipotattiche, frasi negative, gerarchia logico sintattica del periodo complesso, tra cui gli incisi che fanno perdere il filo ai nostri studenti … Purtroppo, l’idea stessa della difficoltà è stata bandita per un dannoso buonismo: i libri di lettura dei bambini sono linguisticamente privi di “attrito”, gli esercizi di grammatica sono poco sfidanti; del resto la grammatica viene insegnata per lo più secondo modelli che non portano alla crescita della padronanza. È dunque nel campo della formazione degli insegnanti che resta molto lavoro da fare.

Il problema forse più spinoso è quello degli strumenti “standardizzati” con cui le prove vengono prodotte e trattate. La parola “standardizzato” rievoca per alcuni uno scenario inquietante, in cui l’insegnamento è lo strumento occulto per la standardizzazione della società e l’omologazione delle persone. In realtà qualunque raccolta-dati si serve di strumenti formali senza dei quali si resterebbe alle impressioni immediate. Con i loro limiti epistemologici, tutti i modelli (teorici, matematici, statistici) ambiscono al superamento della visione “a occhio nudo” e al potenziamento dei sensi attraverso uno strumento “artificiale”. 

Per fare un esempio, la possibilità di misurare una variabile latente come la comprensione di un testo si basa sull’esistenza di criteri per ordinare le domande per grado di difficoltà secondo una scala omogenea. Se riconoscere un’informazione posta all’inizio del capoverso e espressa con parole comuni è più facile che rintracciarla quando è a metà del capoverso o è espressa con una perifrasi rispetto alle espressioni usate nella domanda, allora si può dire che è più bravo a comprendere chi riconosce le più difficili. Se una informazione implicita che deve essere ricostruita per inferenza è più difficile da individuare rispetto a una informazione esplicita, allora si può misurare l’abilità, che è maggiore in chi riconosce anche l’informazione implicita. Questo è il tratto fondamentale del modello statistico di Rasch usato da Ocse ancor prima che da Invalsi. È evidente che senza uno strumento formale affidabile 10 persone diverse darebbero 10 risposte diverse sul grado di difficoltà di un quesito, ma proprio per questo si usa un modello in grado di descrivere i fatti in maniera più rigorosa. 

È chiaro che nel momento storico presente ci troviamo all’interno di una vera ideologia delle regole e del controllo, che porta molti a dubitare dei fini e dei mezzi di qualunque rilevazione. Il moltiplicarsi di regolamenti e norme a diversi livelli della vita sociale ha creato l’assurdo di voler sostituire con “regole” la responsabilità delle persone (per esempio la fiducia reciproca necessaria alle relazioni civili). Da qui anche la diffidenza per un termine come “misurazione”. È certo vero che la statistica non può rendere la verità di una situazione, ma questo è fin troppo facile da dimostrare. La colpa delle eventuali derive (anche quella del professore che fa fare “il test del test” sottoponendo l’alunno a un addestramento alle prove sterile e umiliante) non è tanto degli strumenti, siano essi regole o modelli statistici, ma fa parte della crisi dei fondamenti antropologici (“emergenza uomo”), e richiede di ritrovare un rapporto ragionevole fra uomo, realtà e strumenti di analisi. 

Solo essendo coscienti dei limiti ma anche delle potenzialità degli strumenti tecnici si può non rifiutarli a priori e utilizzarli per quello che essi sono, senza continuamente contrapporre qualitativo e quantitativo in un circolo vizioso da cui non si esce. Sembra quindi cominciata una nuova stagione in cui su tutti questi punti possa esserci un confronto alto nel merito, che coinvolga statistici, linguisti, il mondo accademico, aprendo una opportunità di vera qualificazione del dibattito.

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