Nell’affrontare, sia pure molto genericamente, il tema cruciale del reclutamento nell’università (è ovvio che la qualità della docenza condiziona, nel bene e nel male, la qualità dell’intero sistema della formazione superiore), penso che sia importante partire da una netta distinzione fra gli abusi – esiste in proposito una ricca aneddotica del passato a cui potrei ampiamente collaborare – e i limiti emendabili di un sistema. Nessun sistema è in grado di garantire che i singoli adottino un comportamento corretto: io sono in università da quarant’anni, i sistemi di reclutamento sono cambiati almeno tre volte, e ogni volta si è trovata la possibilità di aggirare la volontà del legislatore. I richiami all’etica e la deprecazione sono sostanzialmente inefficaci, se la scelta di un inetto raccomandato (o parente di, fa lo stesso) non ha nessuna conseguenza, consentendo così dei comportamenti opportunistici. Questo non significa che la norma non sia perfettibile, naturalmente, ma che in mancanza di sanzioni o di incentivi, la tentazione di eluderla in vista di ricompense immediate rischia di prevalere.
A mio parere, l’attuale normativa ha introdotto due meccanismi virtuosi, l’abilitazione scientifica nazionale e il potenziamento di meccanismi premiali, che legano una parte dei finanziamenti alla qualità della ricerca misurata dalla Vqr (che non è individuale, ma di struttura, ma dipende pur sempre dai singoli ricercatori, validi, inattivi o scadenti), alla didattica che verrà misurata dal sistema Ava avviato quest’anno, e infine alle politiche di reclutamento.
In altre parole, se io faccio vincere un concorso non al più bravo, ma all’imbecille raccomandato, pagherò a lungo questa scelta con valutazioni peggiori, e quindi con una diminuzione dei fondi. Indirettamente, pagherò anche in termini di diminuzione degli studenti, che si sposteranno altrove in cerca di una formazione migliore. Già oggi, all’interno dei singoli atenei, in presenza di due docenti della stessa materia gli studenti cercano tutti di andare dal più bravo, costringendo così l’ateneo (che dello scadente non può liberarsi) a forzare l’iscrizione per esempio dividendo in ordine alfabetico, possiamo immaginare con quale entusiasmo degli studenti “A/L” rispetto agli “M/Z”.
L’abilitazione scientifica nazionale, per parte sua, pur complessa da gestire, rende meno rischiosi gli abusi selezionando coloro che hanno i titoli per accedere ai concorsi ed escludendo chi ha mostrato una produzione scientifica del tutto inadeguata. Innalzando la qualità di coloro che possono essere scelti, si tutelano gli studenti anche nel caso in cui nelle procedure concorsuali per la chiamata dei singoli docenti si verificassero delle combine di tipo clientelare: il mitico autista del docente, o il precario schiavizzato per compiti servili non potrebbero entrare nella lista degli eleggibili.
Restano fuori due ulteriori considerazioni che mi limito ad enunciare. La prima è legata allo spazio per la cooptazione: nel lavoro di ricerca e di costruzione di un progetto formativo, la fiducia interpersonale è fondamentale, e io ritengo che a parità di qualità sia del tutto legittima una scelta verso persone con cui esiste una consolidata abitudine alla collaborazione. Ritengo anche che questo abbia consentito in passato la nascita di “scuole” che hanno fatto crescere la ricerca e l’elaborazione culturale. Certo, se il docente-barone segue la nota legge per cui nel corso del tempo i collaboratori diventano sempre più stupidi per non fare ombra al capo, le conseguenze saranno pessime, ma una buona combinazione potrebbe essere “cooptazione più valutazione dei risultati”: in questo modo viene responsabilizzata la governance degli atenei, che porterà nel bene e nel male le conseguenze delle scelte.
Il secondo e ultimo punto è legato alla rigidità del reclutamento, che rende difficile inserire nell’alta formazione talenti professionali (o artistici, nel caso delle Afam) privi di titoli accademici, ma con un’esperienza o una produzione artistica, scientifica e professionale estremamente formativa per i ragazzi. La rete di requisiti che, per gli insegnamenti accademici e la ricerca, tutela gli studenti, è difficilmente applicabile a queste persone: lasciare all’autonomia degli atenei la possibilità di deliberare forme diverse di utilizzo, sempre con il vincolo della qualità valutabile, non potrebbe che arricchire il panorama qua e là desertico dei nostri atenei, attirando un maggior numero di studenti stranieri e forse anche accrescendo le possibilità di impiego dei laureati e dei dottori.