Un’altra scuola è il titolo di una raccolta di saggi a cura di Carlo M. Fedeli, con sottotitolo “Quattro questioni aperte, un’unica sfida”, scritti in occasione di un Convegno del 2010, promosso dalla facoltà di Scienze della formazione dell’Università di Torino. Il libro è pubblicato nella Collana “Teoria e storia dell’educazione” della Sei. Le quattro questioni, considerate decisive al fine della transizione ad un futuro nuovo sistema scolastico, sono: le nuove tecnologie e l’educazione (Alessandro Perissinotto e Barbara Bruschi); conoscenza e competenza (Sergio Belardinelli e Claudio Gentili); il rapporto pubblico-privato nella scuola (Annamaria Poggi); identità e differenze (Milena Santerini e Costantino Esposito). L’introduzione di Giorgio Chiosso disegna la mappa del dibattito pubblico, in cui si collocano gli interventi successivi, mentre Carlo M. Fedeli nella post-fazione identifica i punti di convergenza dei saggi precedenti.
Il libro non propone i lineamenti di una nuova scuola, ma identifica i prolegomeni per la costruzione di un nuovo modello. L’introduzione di Chiosso esordisce con una citazione, tratta da “Capitalismo parassitario” di Z. Bauman: “Le sfide odierne assestano duri colpi all’essenza stessa dell’idea di istruzione così come si era formata agli inizi della lunga storia della civiltà: esse chiamano in questione le invarianti di quell’idea, le caratteristiche costitutive dell’istruzione che avevano resistito a tutte le sfide passate ed erano emerse inattese da tutte le crisi precedenti”. Chiosso delinea le differenze di strategie messe in campo per affrontare la crisi epocale. Una prima grande partizione è quella tra radicali e riformisti. I radicali, a loro volta, si sotto-partiscono il campo in conservatori e in rivoluzionari. I conservatori sembrano pensare che i fasti della scuola tradizionale, ereditata dal modello ottocentesco – severità, rigore, disciplina, riconoscimento sociale ed economico del valore degli studi – si possano rinnovare lungo tre vie privilegiate: una pedagogia basata sui contenuti, il rilancio del criterio meritocratico, la concorrenza tra le scuole. I rivoluzionari puntano, all’opposto, sulla dematerializzazione della scuola, sull’autoapprendimento, sulla digitalizzazione integrale. Persino l’insegnante, in questa prospettiva, può essere sostituito da una figura digitale, proiettata tridimensionalmente a grandezza naturale.
Le tesi riformiste sono suddivise in tre grandi filoni. Il primo è quello cosiddetto “proceduralista”. Poiché l’obiettivo da raggiungere è quello della “scuola efficace” (School Effectiveness), da perseguire mediante il miglioramento delle scuole stesse (School Improvement), si tratta di rendere cogente la programmazione organizzativa e la valutazione esterna, mediante Agenzie esterne al ministero. Chiosso sostiene che questa svolta “azzera due secoli di centralismo ministeriale per sostituirlo con un neocentralismo tecnocratico”. La qualità dell’apprendimento coincide con i risultati delle prestazioni standardizzate.
Il secondo filone è quello del “policentrismo formativo”, in forza del quale non si tratta di creare “un’altra scuola”, ma di costruire una rete di agenzie formative (scuola, formazione professionale, aziende), rispetto alla quale la scuola conserva il ruolo di filtro critico. Insomma: una posizione a metà tra quella radicale della descolarizzazione e quella conservatrice. Il terzo filone pensa ad una scuola nuova, costruita attorno a due principi fondamentali: la personalizzazione e la sussidiarietà. Puntare sui percorsi della persona e costruire un assetto istituzionale e amministrativo che li assecondi e li renda possibili. Nel principio di personalizzazione si fondono educazione e didattica, apprendimento e insegnamento.
Quasi tutti i saggi di questo libro si collocano nel terzo filone, fortemente ispirato dalla cultura pedagogica cattolico-personalista, di cui Chiosso è un esponente di punta. Il contributo di Perissinotto prende atto, sì, della rivoluzione digitale in corso, ma invita a continuare a puntare sul libro di carta, perché esso è un deposito critico permanente, che “fa paura, perché è fuoco che cova sotto la cenere”. Anche se, poi, “il potere del libro è controllato da chi detiene il potere sugli altri media”. Dopo aver invitato a distinguere tra e-book, ipertesto e ipermedia, da una parte, e e-book reader, dall’altra – i primi sono il contenuto, il secondo è il supporto tecnologico – l’autore sostiene che il futuro del libro sta nell’ingresso nel mondo della “convergenza digitale”. Un futuro che non riguarda tanto i contenuti, quanto quello delle conseguenze sociali, culturali ed economiche.
Le “mutazioni genetiche del libro”, che sono analizzate in modo raffinato, richiedono che non si erigano barriere contro le novità, ma anche che si vigili affinché il libro continui ad essere “uno spazio per la centralità del testo scritto e, soprattutto, uno spazio di libertà”. Più immediatamente vicino alle problematiche della didattica il contributo di Barbara Bruschi, dedicato a “Tecnologie e cultura digitale”, che passa in rassegna le analisi di alcuni autori, da Prensky a Lévy a Jenkins, che parlano di “saggezza digitale”, di “intelligenza collettiva”, alludendo alle potenzialità culturali e socializzanti delle nuove tecnologie. Secondo l’autrice, “i sistemi tecnologici non tendono a impoverire le facoltà cognitive degli utenti, bensì a potenziarle”. Tuttavia, per realizzare il passaggio dalla potenza all’atto, occorre praticare la Media Education, di cui protagonisti non possono essere solo i Millennium Learners, ma anche le loro famiglie e gli insegnanti. Le scuole, in effetti, continuano a riprodurre una distanza crescente tra le aspettative di partecipazione, condivisione, interazione dei soggetti, indotte dall’uso dei nuovi mezzi digitali, e il modello “dall’alto”. Osserva la Bruschi che “insegnare ed educare ai tempi del digitale non significa ragionare circa quale tecnologia introdurre in classe, ma come riorganizzare i sistemi formativi, affinché siano in linea con le tecnologie attraverso cui le nuove generazioni producono significati”. Al dibattito/scontro sul dilemma cultura/conoscenze e competenze sono dedicati i due contributi di Sergio Belardinelli e Claudio Gentili.
I lettori de ilsussidiario.net sono assai informati al riguardo, avendo avuto la possibilità di leggere parecchi articoli delle “opposte tendenze”. Belardinelli difende con ottime ragioni il primato della Bildung, della tradizione e dell’educazione, in nome del “carattere generativo” dell’educazione, mentre sul tema delle competenze condivide con un certo entusiasmo le posizioni di Giorgio Israel, che i lettori ddi queste pagine ben conoscono. In effetti, il famoso “apprendere ad apprendere”, sganciato dall’apprendere qualcosa, diviene una specie di processus ad infinitum. Risponde Claudio Gentili, che ripercorre brevemente la storia del concetto di competenza fino ad approdare ad un concetto più largo e più comprensivo. Alla fine, la competenza è il sapere acquisito, che diventa sapere “agito”, cioè trasformato in complesso di capacità, abilità, assunzione di responsabilità sociale e professionale. Dietro tale discussione si annida uno scontro reale tra modelli di scuola: quello tradizionale, di cui i conservatori − secondo la classificazione tracciata all’inizio da Chiosso – difendono l’essenza –, o per esempio il modello personalizzazione/sussidiarietà? Claudio Gentili propende con tutta evidenza per questo secondo.
Il terzo capitolo è tutto occupato dal contributo di Annamaria Poggi, costituzionalista, sulla vaexatissima quaestio: scuola statale, scuola pubblica, scuola paritaria. Il nodo della quale non è ancora stato davvero sciolto. La legge 62/2000 (legge Berlinguer) non è stata pienamente attuata, su un punto decisivo: quello dei finanziamenti. Così, mentre si stabilisce che le scuole private diventano, a determinate condizioni, scuole pubbliche, al pari di quelle statali – e pertanto si denominano “paritarie”, tuttavia il finanziamento non segue automaticamente, come accade per quelle statali, ma viene deciso di anno in anno, “facoltativamente”. Annamaria Poggi compie un lungo e dotto excursus, dalla Costituente fino ai nostri giorni, la cui conclusione è che la clausola “senza oneri per lo Stato” “risulta assolutamente eccentrica e asimmetrica rispetto al quadro costituzionale nel suo complesso”. Più regola che principio, la clausola dovrebbe essere interpretata alla luce dell’intero quadro storico evolutivo. Il che tuttavia è al momento ancora impedito da forti “pre-comprensioni ideologiche”.
L’ultimo tema, quello dell’identità e delle differenze, è trattato da Milena Santerini in termini di antropologia culturale e da Costantino Esposito in termini più teoretici. Sulla scorta del filosofo francese Jullien, la Santerini invita a tenere distinte, in sede di concettualizzazione, le tre categorie fondanti della pluralità: l’universale – il lascito prescrittivo della tradizione classica − l’uniforme – la tentazione della globalizzazione dei consumi − il comune – la dimensione dell’appartenenza ad una comune umanità e ad un comune destino. Quest’ultima è la categoria centrale, in cui s’incrociano le altre due, ossia il terreno reale della scuola quotidiana, dove si affrontano le differenti culture che ormai occupano lo spazio pubblico della scuola. È merito del pensiero relativista quello di aver segnalato la pari dignità delle culture, anche se un conto è la relatività e un altro la sua ideologizzazione relativistica.
Qui si delineano i compiti difficile dell’educazione interculturale nelle scuole, che è passata in Italia, e non solo, dalla fase dell’assimilazionismo a quella del multiculturalismo. Oggi, dice la Santerini, si confrontano nella scuola italiana pratiche neo-assimilazioniste e tentativi di interculturalismo di seconda generazione. Si tratta di attraversare, nella scuola, una sfida tutta europea – delineata nel Libro bianco europeo sul dialogo interculturale – che di fronte alle differenze non insegua una “mitica omogeneità monoculturale”, senza smettere tuttavia di cercare “ciò che è comune”.
Costantino Esposito ripercorre dal punto di vista della storia del pensiero filosofico il tema del capitolo, passando per Locke e Rousseau. L’itinerario di questi pensatori approda ad un’alternativa drammatica: o le guerre di religione o la sottomissione di ogni identità allo Stato. Rousseau nell’Emilio o dell’educazione: “bisogna scegliere se fare l’uomo o il cittadino”. Per sfuggire a quell’alternativa, Esposito propone un’antropologia filosofica in cui l’Io eccede da sempre il proprio stesso processo di “auto-poiesi”, cui viceversa sembra ridurlo il “nichilismo realizzato” del pensiero filosofico moderno. La fondazione ontologica dell’Io non è tutta in mano all’Io stesso, è nelle mani di una realtà eccedente. In questo bilanciamento/intreccio tra l’Io empirico e l’Io eccedente sta “la scoperta dell’identità per vivere le differenze”.
Alla fine del libro, Carlo M. Fedeli ripercorre i contributi, alla luce del paradigma personalista − “individuare il punto di arrivo del percorso scolastico e formativo non tanto il lavoro, quanto piuttosto la condizione adulta”− e di quello sussidiario – “verso una scuola della società civile”. Le conclusioni ripropongono “tre questioni architettoniche” che devono occupare il campo educativo: a) quella della scoperta, della conoscenza e del significato di sé, di fronte all’erranza e all’agnosticismo della condizione moderna; b) quella della tematizzazione del punto sorgivo comune dal quale originano le differenze etniche, sessuali, cognitive, psichiche, morali ecc…; c) quella della costruzione di una ragione più ampia, più riflessiva e più relazionale di quella che l’epoca moderna ha saputo concepire. La centralità dell’io e l’integralità dell’umano quali “fattori sintetici” decisivi per il cambiamento del sistema scolastico e formativo.
Resta solo un auspicio da esternare: che questa ricca cultura politica, che attraversa l’intero libro, diventi competenza effettiva di dirigenti, di insegnanti, di genitori, cioè “sapere agito”. Non bastano le idee a cambiare il mondo; per farlo, devono camminare sulle gambe degli uomini.