Gli insegnanti di ruolo italiani sono i più vecchi – oltre ad essere i peggio pagati – dell’intera area Ocse. Ce lo dice l’ultimo Rapporto “Education at a Glance 2013”, secondo il quale quasi i due terzi hanno più di 50 anni, con picchi d’età prevalenti intorno ai 60 anni; gli ultracinquantenni sono poco meno del 48% nella scuola primaria, il 61% nella secondaria di primo grado e quasi il 63% alle superiori, mentre la media Ocse non supera il 35%. In Italia gli insegnanti sotto i 30 anni sono 27 su mille, mentre nella media Ocse sono oltre il 10%.
Il Rapporto, però, fotografa la situazione al 2011, prima dell’entrata in vigore della riforma delle pensioni targata Fornero, perciò il dato italiano è destinato inesorabilmente a peggiorare nei prossimi anni. Non abbiamo la situazione ad oggi (il servizio statistico del Miur è sempre in ritardo nella pubblicazione dei dati aggiornati), ma i numeri relativi agli ultimi pensionamenti confermano in pieno questa previsione: mentre nel 2011 ad uscire dalla scuola erano stati oltre 27mila docenti e il 1° settembre 2012 avevano lasciato in più di 21mila, le cessazioni dal servizio nel 2013 sono diventate poco meno di 11mila.
Solo quattro anni fa uno studio condotto dalla Fondazione Agnelli ne prevedeva, in base alla normativa pensionistica allora vigente, tre volte tanto. I primi a farne le spese sono stati i giovani docenti usciti dal concorso. Infatti, degli 11.542 posti e cattedre messi a concorso nel 2012 il ministero ne aveva destinati 7.351 all’a.s. 2013-14, e i restanti 4.191 all’anno successivo. Poiché il Testo Unico stabilisce che il reclutamento annuale va ripartito al 50% tra concorso e graduatorie ad esaurimento, il totale delle immissioni in ruolo al 1° settembre 2013 avrebbe dovuto essere di almeno 15mila unità, mentre sono state soltanto 11mila. Complici anche i gravi ritardi delle commissioni d’esame, quest’anno sono rimasti tagliati fuori dal ruolo oltre 2mila vincitori di concorso.
Fra i tagli al personale degli scorsi anni e l’innalzamento dell’età pensionabile, i posti di lavoro per i giovani insegnanti sono quindi sempre di meno; eppure ci sarebbe bisogno di loro come del pane: per l’età e quindi le energie necessarie (l’insegnamento, anche se non riconosciuto ufficialmente, è un lavoro usurante), per la capacità di affrontare le sfide delle nuove tecnologie ma anche per la maggiore affinità generazionale con gli studenti, soprattutto alle superiori.
Se il dato relativo all’anzianità dei docenti consente un confronto oggettivo a livello internazionale, molto più complesse sono le comparazioni relative al numero di docenti per allievo, alla quantità di lavoro richiesto agli insegnanti, alle loro retribuzioni.
I motivi sono molteplici: diversa è la strutturazione dei cicli scolastici nei vari Paesi come diverse sono la figure professionali specifiche (in molti Paesi non esiste la figura dell’insegnante di sostegno), mentre le modalità di valutazione degli impegni professionali sono differenti a seconda che si parli di orario di servizio o di orario d’insegnamento. Ad esempio, in Italia un docente delle superiori fa 630 ore di lezione in un anno, contro una media Ocse di 664; altri Paesi come la Finlandia e il Giappone ne fanno di meno (553 e 510 rispettivamente): il docente italiano sembra così lavorare di più.
In realtà l’Italia non quantifica il numero complessivo di ore di impegno lavorativo contrattuale (comprensivo di preparazione delle lezioni, correzione degli elaborati, partecipazioni agli organi collegiali, a scrutini ed esami), ma solo quello di cattedra; il Giappone e molti altri Paesi invece lo fanno: la media Ocse è pari a 1.003 ore in più rispetto a quelle d’insegnamento effettivo. Come si fa a dire chi lavora di più? O anche a paragonare adeguatamente gli stipendi? A cosa può servire sapere chi lavora di più o guadagna meno? Non sta qui il punto. Il confronto non è utile quando si riduce a lamentazione o a improbabili imitazioni, ma quando genera autocoscienza, corresponsabilità e quindi crescita.
Qualche tempo fa il ministro Carrozza ha parlato di priorità di interventi nell’edilizia scolastica: “siamo in una situazione drammatica,… abbiamo bisogno prima di tutto di un investimento nell’edilizia scolastica“. E ha poi aggiunto: “abbiamo bisogno di più insegnanti. Credo che il futuro del nostro Paese si possa giocare con un esercito di nuovi insegnanti, che davvero ci permettano di migliorare la qualità del nostro servizio“. Una dichiarazione che ha generato qualche speranza. Purtroppo, le norme varate finora dal Governo hanno solo in minima parte dato seguito alle parole del ministro: la legge 128/2013 ha previsto un incremento dei ruoli, ma solo per il sostegno; in compenso, con l’apertura pomeridiana delle scuole, sono aumentate le incombenze dei docenti e la Legge di Stabilità ha confermato il blocco della progressione stipendiale.
Ci vorrebbe invece una reale inversione di tendenza: la politica deve tornare a guardare al futuro del Paese e investire nella scuola; e deve farlo in fretta. Ma non basta. È ormai evidente che oggi nel nostro Paese la prima emergenza è costituita dall’educazione. I dati dell’Ocse ci mostrano che i sistemi scolastici più avanzati sono quelli che promuovono l’autonomia delle istituzioni e la libertà di educazione; perciò, per il bene del Paese e delle giovani generazioni, l’educazione alla libertà e alla corresponsabilità deve trovare nella scuola un luogo primario di accoglienza e sviluppo.