La vicenda degli scatti di anzianità del personale scolastico, che ha assunto tratti rocamboleschi in avvio d’anno con l’incredibile succedersi di decisioni e controdecisioni, ci vede fortemente impegnati da circa tre anni, da quando cioè la manovra Tremonti del 2010 “congelò” l’entità delle retribuzioni dei pubblici dipendenti, attraverso il blocco dei rinnovi contrattuali, e per la scuola aggiunse un carico supplementare, “sterilizzando” per un triennio le progressioni di anzianità.
Non potendo accettare quella che abbiamo subito denunciato come una doppia penalizzazione, ci siamo adoperati da allora per trovare soluzioni sul piano sindacale, vista l’impossibilità di rimuovere il problema attraverso interventi legislativi. Questi ultimi non appartengono, ovviamente, alla sfera delle nostre prerogative; possiamo premere perché siano adottati, ma rientrano nell’autonoma potestà del legislatore. Sta di fatto che dal 2010 ad oggi, cambiati nel frattempo tre governi e almeno quattro maggioranze, il sogno di una legge che rimuovesse alla radice le norme del 2010 è sempre rimasto tale.
Le intese che nel frattempo abbiamo cercato e raggiunto, insieme ad altre organizzazioni, per riprenderci gradualmente quanto ci era stato sottratto, devono essere lette in questo contesto: diversamente, si farebbe fatica a comprendere il perché si utilizzino per le anzianità risorse contrattuali destinate al salario accessorio, in una sorta di “autofinanziamento” che trova la sua ragione proprio nell’assenza di alternative realisticamente percorribili. Non è dunque un “gioco delle tre carte” il nostro, come qualcuno sprezzantemente dice, ma una scelta di natura contrattuale e sindacale che altri non hanno avuto il coraggio di fare. È solo grazie a quella scelta se si riuscirà a recuperare, speriamo a breve, anche il 2012, dopo aver restituito validità al 2010 e al 2011.
La nostra determinazione a difendere gli scatti, anche a costo di doverceli in parte autofinanziare, non è un accanimento privo di senso e di prospettive. Il senso lo ha, come già detto, perché la tutela del salario “tabellare”, in assenza di benefici contrattuali, è obiettivo primario per chi rappresenta una categoria che già sconta retribuzioni fra le più basse in Europa.
L’anzianità, ad oggi, è l’unico fattore di incremento salariale di cui dispone chi lavora nella scuola. Un tempo gli effetti delle progressioni per anzianità erano molto più consistenti, dagli anni 90 si è consolidata una situazione che vede il personale col massimo grado di anzianità guadagnare circa il 50% in più di chi è al livello iniziale (percentuale che oscilla dal 30% in più delle qualifiche più basse al 56% di quella dei docenti di II grado).
Se si considera che in busta un professore della secondaria riesce solo a fine carriera a sfiorare i 2.000 euro mensili, si comprende perché la tutela del salario fondamentale resti una priorità assoluta, e come sia difficile immaginare percorsi di carriera più articolati, e legati a fattori diversi, senza il supporto di un adeguato investimento di risorse.
La storia dei contratti scuola dimostra in modo lampante come sia sempre stato questo lo scoglio su cui si sono infranti tutti i tentativi di individuare strade diverse di valorizzazione della professionalità. È del tutto comprensibile che la categoria si mostri restia a misurarsi con ipotesi di dinamiche retributive diverse, se ciò implica un arretramento rispetto alle già limitate opportunità di cui oggi dispone. Non è ideologica, la nostra resistenza a discutere di modelli nuovi: lo dimostra il fatto che quando lo abbiamo giudicato conveniente, abbiamo fatto concessioni sulla struttura salariale. Nel 2011 è valsa la pena, ad esempio, rivedere la scansione dei passaggi di classe stipendiale per ottenere il via libera a una massiccia stabilizzazione del lavoro. Anche oggi non avremmo remore ad affrontare una discussione – anzi, a riprenderla esattamente dove l’abbiamo lasciata firmando il contratto nell’ormai lontano 2007 – se ci si desse l’opportunità di un negoziato contrattuale vero, non limitato cioè alla sola parte normativa.
Purché sia chiaro – voglio ripeterlo − che una diversa struttura delle carriere può e deve e rappresentare per la categoria non un punto di arretramento, ma un passaggio di crescita. Da tanto tempo lo si attende, ultimamente chi governa ce lo promette, aspettiamo che alle parole seguano i fatti.
Crediamo poi che possa aiutare a rendere proficuo e costruttivo il confronto liberarsi dalla falsa antinomia anzianità/merito (o qualunque altro fattore di avanzamento in carriera si voglia assumere): non sono fattori inconciliabili, convivono invece in pressoché tutti i sistemi retributivi di altri paesi, che assegnano sempre un valore all’esperienza acquisita con l’anzianità.
Non convince infine, e non ci sembra trovare nemmeno troppo riscontro se gettiamo lo sguardo fuori dalla nostra porta, l’idea suggerita da Foschi nel suo articolo del 7 gennaio, di liberalizzare la docenza; idea che proprio assumendo il suo auspicio ad agire con ragionevolezza fatichiamo a veder applicata all’insieme di un sistema di istruzione il cui carattere unitario e nazionale, anche qualora si ampliassero su nuovi versanti le prerogative dell’autonomia scolastica, resta per noi elemento irrinunciabile, qualificante e costitutivo della sua natura pubblica.