C’era una volta il sei politico. Originariamente evocato per contestare l’autoritarismo di chi utilizzava lo strumento della valutazione per una selettività arbitraria e classista, si trasformò – con alcune degenerazioni – in una pratica di annullamento dello stesso valore comunicativo del voto, rispetto a singole performance o alla conclusione dei percorsi formativi.



Oggi accade dell’altro. Molti docenti, armati di buone intenzioni, cercano di mantenere saldo il significato del proprio lavoro, non utilizzando la valutazione come un grimaldello, né come mero rinforzo. Un impiego oculato della scala dei voti è non soltanto richiesto dalla normativa vigente, ma anche incoraggiato da una parte dei docenti e genitori, che in alcune fasi della vita scolastica invocano rigore, precisione, giustizia nella valutazione. 



Ecco: “in alcune fasi”, ma in altre no. E quando una media sgradita destabilizza un allievo, genera una difficoltà nell’equilibrio familiare (e viceversa, perché talvolta i giovani sanno incassare molto meglio dei loro padri e delle loro madri). Lo sforzo nella prevenzione e nella gestione di quel delicato equilibrio modifica però i rapporti nel gruppo classe, sempre teso in assurde comparazioni. Per queste ragioni molti insegnanti, alle loro buone pratiche, finiscono comprensibilmente per rinunziare. Io stesso ho sempre difeso e adottato nel mio lavoro quotidiano una certa cura nel processo di attribuzione dei voti, che considero in sé positivo sul piano dell’efficacia pedagogica. Ma (c’è un “ma”) qualcosa sta cambiando. Le nuove circolari ministeriali sui Bes (Bisogni educativi speciali) sono a questo proposito un fatto storico significativo, poiché vanno a rappresentare, sul piano normativo, una trasformazione sociale già definita, che rischia di sfuggirci. Alla luce di ciò, sorprendendomi di me stesso, comincio a dubitare delle mie certezze, e a meglio comprendere le ragioni di chi decide di abbassare la guardia e procedere a una disincantata adozione del “sei politico”. Perché?



La sensibilità del mondo della scuola nei confronti delle problematiche specifiche di ciascuno studente è aumentata, e questo è senz’altro un bene: disturbi specifici dell’apprendimento, bisogni educativi speciali, problemi familiari o traumi infantili, casi di devianza o di disattenzione, difficoltà linguistiche. Tutti problemi profondi, di cui è giusto che il sistema-scuola si faccia carico in modo maturo e consapevole. Ma con quali strumenti? E verso quali obiettivi? 

Pare facile suggerire al corpo docente di elaborare un piano personalizzato all’interno del quale continuare a far percepire all’allievo i suoi punti di forza e di debolezza attraverso il sistema della valutazione. Non è così. Se assunti in senso pieno, tutti quei “bisogni” hanno una forte incidenza sulla vita psicologica dell’allievo e sui sistemi relazionali in cui è immerso. 

Si deve allora tenere conto dei rapporti tra compagni, delle aspettative della famiglia, delle pressioni dei colleghi e del dirigente scolastico, ma anche di sé stessi e delle proprie reazioni ai fattori stressanti.

Ecco che il singolo docente si trova di fronte a un’alternativa drastica. Come Ercole al bivio, non sa decidersi. Per un verso, può essere allettato dall’idea di intraprendere la strada della ricerca individualizzata per ciascuno studente della giusta scala di valutazione, che anziché essere un arido descrittore, possa essere capita nelle sue ragioni. Obiettivo reso arduo dal contesto iper-apprensivo in cui (ahinoi!) viviamo. L’altro percorso possibile, è di segno inverso: concentrarsi prevalentemente sulla trasmissione delle conoscenze e delle abilità, ricorrendo al classico “sei politico”, che non scontenta gli allievi scolasticamente deboli (e che però li penalizza di più, perché non li pone in allarme in relazione ai loro punti di debolezza), ma che di molto inibisce la formazione di un sapere metacognitivo. 

Ercole, tuttavia, era indotto a scegliere tra un positivo e un negativo, rivelando saggezza nell’eludere le tentazioni della strada più agevole. Il povero docente, invece, non ha di fronte a sé la praticabilità di alcuna virtù. Nel primo caso, infatti, si assumerebbe una responsabilità enorme, con un elevato rischio di incorrere in errori relazionali dalle conseguenze imprevedibili, sottraendo il giusto respiro e la dovuta concentrazione alla fatica della trasmissione culturale. Nel secondo caso, minori saranno le responsabilità, migliore la qualità del lavoro scolastico, ma solo per quegli studenti che troveranno autonomamente la giusta motivazione, in mancanza della naturale funzionalità dei feedback negativi.

Difficile scegliere. Certamente qualcuno potrebbe esser tentato di ignorare le trasformazioni sociali in atto, e perpetrare il modello di scuola che ha conosciuto da studente. Ma con tutte le buone intenzioni si tratta di uno sforzo improbo, e destinato a infrangersi contro la verità di una componente giovanile (e familiare) molto più fragile che in passato, che non è capace di assorbire senza traumi neanche una critica circoscritta, figuriamoci una bocciatura. La società, lo dimostra il Miur con i suoi comunicati, ha individuato nell’insuccesso scolastico un nemico da combattere, ma non necessariamente con le armi del potenziamento formativo, bensì con una trasformazione profonda della funzione docente. Siamo onesti: in molti contesti non è necessario affatto dominare un campo scientifico e utilizzare conoscenze psico-pedagogiche per gestire al meglio il setting scolastico. Spesso, il lavoro che ci viene richiesto è una via di mezzo tra il tutoring e il counseling, e l’approfondimento è reso sempre più ardito. E questo in barba a tutti i concorsi, presenti e futuri, così fortemente selettivi sul piano dei contenuti disciplinari.

Le trasformazioni sociali in atto esigono l’adozione di due modelli tra loro antagonisti, ed entrambi fallaci: un pedagogismo burocratizzato in Pdp (piani didattici personalizzati) formali o informali, se non addirittura (e peggio ancora) in un sentimentalismo spesso segnato più dal timore di ricorsi legali delle famiglie che da sincera empatia; oppure un sereno e rilassante approdo al “sei politico”, debolissimo sul piano educativo, ma che restituisce spazi alla fisica, alla chimica, alla filosofia e al sapere in tutta la sua bellezza. Tertium non datur

Ma la tragicità della scelta (perché, ricordiamolo, parliamo della formazione dei nostri figli) non nasce nelle dinamiche del mondo scolastico, bensì in quelle del contesto culturale, che abitua i propri membri a percepire in modo distorto il meccanismo stesso della valutazione e del successo individuale. È la nostra cultura a dover essere riformata, non la scuola, che se viene investita di attenzione politica è sempre e soltanto per ottemperare all’unico fine che i nostri cittadini sembrano attendersi dal nostro operato: fare le nozze coi fichi secchi.