LIPSIA – Nel giorno della memoria del genocidio degli ebrei da parte di Hitler e del nazionalsocialismo tedesco sono in giro con un gruppo di ragazzi della mia scuola per un seminario a doppio tema: da una parte Martin Luther, Thomas Müntzer, Dietrich Bonhoeffer e Hannah Arendt, dall’altra il pensiero utopico a partire da Tommaso Moro.
Quello che scrivo nasce dal dialogo avuto ieri l’altro con alcuni ragazzi della decima ed undicesima classe del liceo in cui lavoro (si sono messi liberamente a disposizione per questo mio articolo). Non è il frutto di un lavoro statistico in grande stile, ma vi ho riflettuto con i colleghi che fanno parte con me del seminario citato.
Il dialogo aveva una certa struttura: le impressioni dei ragazzi avute durante la visita (che compiono nel decimo anno di liceo) a Buchenwald, il campo di sterminio vicino a Weimar; le impressioni derivate dall’insegnamento di storia; e infine un messaggio che vorrebbero dare ai lettori italiani di questo articolo.
Elisa (undicesima classe) ricorda lo sconvolgimento emozionale provato l’anno precedente nel campo di Buchenwald, da cui ha tentò di difendersi dapprima con una specie di “immigrazione interiore”, una sorta di “essere presente e non realmente presente” durante la gita educativa. Ma ad un certo punto, in una delle case in cui vengono mostrate in modo più esplicito le conseguenze del genocidio (in una stanza veniva mostrato come i cadaveri degli ebrei, se ho capito bene il loro racconto, fossero stati appesi a dei ganci, dopo essere stati massacrati), uscì di corsa dall’edificio, con la sensazione di non poter sopportare la brutalità inimmaginabile di ciò che stava vedendo e di cui si era parlato nella scuola.
Richard, che è un compagno di classe di Elisa, mi ha raccontato che dopo la gita nel bus regnava un silenzio non tipico per ragazzi del loro anno. Quello che ha fatto pensare a lungo Richard non è stato tanto il fatto che uomini abbiano ucciso altri uomini – di fatti come questo è piena la storia e non solo quella tedesca -, ma la pianificazione sistematica che portò al genocidio degli ebrei.
Alla mia domanda se fossero d’accordo con la definizione di Hannah Arendt sulla “banalità del male” hanno risposto che secondo loro in Hitler e nei suoi collaboratori più stretti non c’era alcuna “banalità”, ma una “mostruosità”; “banalità” di cui forse si poteva parlare per le tante persone che hanno poi eseguito gli ordini.
Per quanto riguarda i partiti come la NPD che si richiamano oggi ancora al nazionalsocialismo (Jonathan, un ragazzo della decima, aveva letto che vi sono partiti simili anche negli Usa) l’impressione che ha avuto Elisa è che questo sia possibile per un non-sapere, piuttosto che per una vera identificazione con ciò che accade allora.
Nei sei mesi che Elisa ha passato in Nuova Zelanda, nella seconda parte della decima classe, ha notato come nell’insegnamento di storia la questione del nazionalsocialismo fosse appena toccata, confinando in una sorta di non-sapere: si parlava di Hitler come di un “cattivo”, dicendo che era tedesco, così che tutti i ragazzi nella classe si girarono a guardarla. Per lei era importante, nei confronti dei suoi nuovi compagni di scuola in Nuova Zelanda, sottolineare che era sconvolta da ciò che aveva fatto Hitler, ma che non era lecito identificare tutti i tedeschi con questa storia.
Il tema era troppo importatane per me e così ho chiesto ai ragazzi presenti se erano erano sconvolti come tedeschi o come uomini per ciò che era successo nella Germania di allora. Richard ha detto che sarebbe potuto accadere anche ad altri popoli ciò che è stato fatto da quello tedesco, e ha sottolineato come ciò che lo ha scosso fosse che uomini in quanto tali, non in primo luogo tedeschi, abbiano commesso quei crimini. Come tedesco non sente una responsabilità morale per avvenimenti che non ha provocato lui, ma sente la responsabilità che nel “luogo” Germania − nel posto in cui fu pianificato e realizzato quel massacro − si contribuisca in modo particolare alla memoria dell’avvenimento stesso. Questo è in sintesi il messaggio che i ragazzi volevano dare ai lettori italiani.
Christoph e Jonathan, della decima classe, mi hanno raccontato che non solo in storia − dove l’argomento non è un tema tra gli altri ma viene trattato con una particolare attenzione emozionale, e non solo come una presentazione oggettiva di fatti −, ma anche in religione è stato tematizzato l’atteggiamento criminale dei nazionalsocialisti nei confronti degli handicappati e la problematica dell’eutanasia. L’impressione che ha avuto Christoph della sua gita scolastica appena fatta a Buchenwald è di essere stato in un luogo “freddo”, non umano, un luogo dove gli uomini tradiscono la propria natura, che tende al bene, non al male.
Tutti i quattro ragazzi sentono come loro responsabilità di presentate ai propri futuri figli e ricordare loro questo tradimento che l’uomo ha fatto di se stesso e della propria natura, della propria “ecologia umana” (per usare le parole usate da Benedetto XVI nel parlamento tedesco nel 2011).
I colleghi a cui poi ha raccontato la serietà con cui i ragazzi avevano risposto alle mie domande, ne sono stati colpiti positivamente. Una collega, nata nel 1961, che insegna tedesco e religione, Johanna Butting, mi ha detto che nella sua generazione ci si sentiva ancora colpevoli del genocidio, perché si aveva un contatto diretto con le persone che erano stato coinvolte con quella storia (per lei, ad esempio, suo nonno), ma che questo contatto “diretto” nelle nuove generazioni viene a mancare perché i testimoni sono quasi tutti morti.
Per un altro collega, che dirige la parte sul pensiero utopico del seminario “Politica e Riforma” cui partecipiamo, Stephan Kratsch, questo scarto generazionale pone il problema di come raccontare ora questa storia, senza costringere i ragazzi ad un peso emozionale che non può essere “costruito”, ma che può nascere solo spontaneamente, quando per l’appunto si è confrontati con i fatti. Un esempio di riuscito tentativo educativo di presentare gli avvenimenti del genocidio è il figlio della collega di religione e tedesco di cui parlavo. Ha partecipato alla gita scolastica ad Auschwitz che la nostra scuola organizza ogni anno per i ragazzi della maturità e, dopo la gita scolastica, ha avuto il bisogno di comprarsi dei libri e di informarsi su ciò che aveva portato all’indicibilità di quegli avvenimenti che etichettiamo con il nome di “Auschwitz”.
Un altro collega responsabile della parte del seminario su Lutero, Müntzer, Bonhoeffer e Arendt, Axel Große, ha sottolineato che vede con una certa preoccupazione l’uso della giornata della memoria in altri paesi europei come ricatto alla prosperità tedesca, quasi per dir loro: non comportatevi in modo arrogante, perché voi siete quelli che hanno provocato l’olocausto.
Io penso infine, come avevo già cercato di dire tempo fa su queste pagine, che non vi sia nulla di più insensato che isolare la Germania con un ricatto morale ed emozionale. Per noi tutti rimane aperta la domanda: come educare in modo che non avvenga più l’estremo male di cui parla Hannah Arendt? Estremo male che può essere mediato da forme di “obbedienza banale”, che impediscono, anche oggi, che il bene, nella sua radicalità, come si esprime la filosofa ebrea tedesca, porti frutta di amicizia in un popolo e tra i popoli.