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Home » Educazione » SCUOLA/ Il Clil, cento domande, zero risposte

  • Educazione

SCUOLA/ Il Clil, cento domande, zero risposte

Silvia Ballabio
Pubblicato 5 Gennaio 2014
scuola_esame_follaR439

Infophoto

Molte domande sul Clil attendono ancora una risposta, sia sul metodo che sui contenuti. E le indicazioni nazionali su tutto sono molto, molto lacunose. Che fare? SILVIA BALLABIO

A livello ordinamentale, nel triennio dei licei linguistici e al quinto anno di tutti gli altri licei e degli istituti tecnici, i docenti Clil, insegnamento integrato di lingua (straniera) e disciplina, sono docenti Dnl, docenti di discipline non linguistiche. Cosa può fare, in concreto, il docente di lingua straniera  che voglia contribuire al Clil, siano lui o lei (più probabilmente una “lei”)  titolare della disciplina o lettore madrelingua presente stabilmente o su progetto in un certo istituto? Dalle norme transitorie  relative ai licei linguistici del gennaio 2013 è chiaro quel che non fa: non ha ore di cattedra   dedicate, nemmeno in compresenza o codocenza, ma capire cosa possa fare, viste le scarne  indicazioni presenti nelle norme, richiede uno certo sforzo immaginativo.


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Il primo punto delle norme transitorie riguarda la “programmazione comune” del percorso Clil anche con il docente di lingua straniera; a partire dalle indicazioni nazionali di una disciplina, mettiamo la storia, immaginiamo la situazione di Clil team auspicata dal decreto ministeriale. Un docente di storia e una di lingua di un qualsiasi liceo (le indicazioni nazionali sono le stesse ovunque per entrambe le discipline, per gli istituti tecnici le materie Clil sono quelle tecniche) si siedono allo stesso tavolo  per inventarsi un Clil syllabus per il quinto anno per una loro classe, cioè un programma Clil che arrivi al 50 per cento del monte ore annuale della disciplina, come indicato dal decreto. 


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Immaginiamo anche di voler tener conto di un modello Clil molto popolare, il cosiddetto 4Cs di Do Coyle (Content, Cognition, Culture an Communication) che, tuttavia, i docenti di L2 non sono tenuti a conoscere. Ma facciamo il caso che entrambi i docenti abbiano fatto i compiti a casa ben oltre il dettato della legge, o che il docente di storia li abbia fatti (magari frequentando un corso metodologico presso una università o all’estero, od entrambi), e condivida il suo sapere con la collega. In  teoria questo scenario immaginario dovrebbe essere un dejà vu per i docenti Dnl dei linguistici da almeno due anni; sicuramente è immaginario per i docenti degli altri licei. 


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In merito al Content (i contenuti da proporre), ogni docente di lingua straniera di un liceo (le lingue possibili ad oggi sono inglese, spagnolo, francese, tedesco, arabo e cinese) andrebbe probabilmente a suggerire i “titoletti” (le descrizioni sintetiche di argomenti) della “sua lingua”, o meglio ambito culturale (anglofono, ispanico, germanico, slavo, orientale), fra quelli riportati nelle indicazioni nazionali di storia. Ma la lingua del Clil non è forse: a) quella/e che gli studenti apprendono e: b) legata alle competenze linguistiche del docente Dnl? Quindi, nella stragrande maggioranza dei casi, la lingua inglese?

Quale dovrebbe essere il senso della presenza del docente di lingua? Che promuova lo studio di argomenti afferenti al mondo anglofono, e non per partito preso, ma perché ne verrebbe un guadagno in termini di consapevolezza critica e dettaglio conoscitivo per i suoi studenti, soprattutto se i due assi, spaziale e temporale, vengono tenuti presenti? E se poi questi titoletti, ad es. “la prima (o seconda) guerra mondiale”, “l’Onu”,”l’età di Kruscev e Kennedy”, riguardano la contemporaneità, e quindi sono potenzialmente presentabili attraverso testi autentici? 

Se questi criteri fossero ritenuti validi, si avrebbe facilmente un 50 per cento di storia anglofona; non è difficile individuare fenomeni o eventi del Novecento in cui il Regno Unito, gli Stati Uniti, ma anche il Sudafrica o l’India, per citare gli esempi più clamorosi, siano stati coinvolti a vario titolo. Ma il ruolo avuto nel fenomeno/evento dalla nazione appartenente all’anglosfera deve essere centrale nella trattazione dell’argomento? Deve determinarne l’interpretazione? Quale storiografia proporre? Ed ancora, che fare, ad es., con “il crollo del sistema sovietico”? Avrebbe senso un Clil  slavo svolto in lingua inglese? Se il Clil non è un  contenuto “detto in un’altra lingua”, come si sceglie un contenuto piuttosto che un altro? Le “culture americane precolombiane” (citate nelle indicazioni nazionali) ad es., fanno parte del solo Clil ispanico? O possono essere svolte in un’altra lingua? Se sì, in base a che criterio? La disponibilità di testi storici autorevoli in inglese? Atti a introdurre un concetto storico complesso quale la colonizzazione? Ma queste sono le domande del docente di lingua, o del docente di storia?

Passando ad un altro asse portante del Clil, la Cognition, il vero punto qualificante della metodologia Clil, questa si presenta nelle indicazioni nazionali sotto forma delle competenze, cioè quel che lo studente sa fare in storia (non “quali argomenti sa della storia”), come “valutare diversi tipi di fonti”, “leggere documenti storici”, “confrontare diverse tesi interpretative”, “sintetizzare e schematizzare un testo espositivo di natura storica”. Quale può essere qui il contributo del docente di lingue? 

Dalle indicazioni nazionali nulla traspare relativamente a Culture (tranne l’indicazione di aprire in tutto il quinquennio a eventi/fenomeni extraeuropei) e Communication, ma su questo secondo punto  qualche suggerimento viene dalle famose norme transitorie. Il docente di lingua fornisce” strumenti per l’analisi del profilo della classe in relazione alle competenze linguistico-comunicative”, che per un docente di lingue vuol dire senza ombra di dubbio attestare il livello di competenza linguistica della sua classe in base al Qcer (B1, B2, e via di seguito…); o forse vuol dire qualcosa di più, visto che si re-insiste sulla programmazione rispetto ai “bisogni formativi” degli studenti?

Cosa può voler dire tutto ciò? Continuando ad immaginare, la docente reperisce materiali di livello linguistico adeguato, proponendo  “testi” di varia natura (non solo scritti, ma anche orali, o visivi?) oppure visiona i materiali proposti dal collega di storia e li approva, sanziona, corregge, integra? In base a che criterio, in entrambi gli scenari (il primo mi sembra poco praticabile, a meno che la docente non si attesti su testi divulgativi)? Il Clil, che rientra nel Content based approach (insegnare la lingua attraverso un contenuto), ha una logica diversa dal Communicative approach (insegnare la lingua della comunicazione); nel secondo, il docente tara i materiali sul livello linguistico dei discenti, nel primo “vola più alto” (come sa qualsiasi docente di lingua che abbia mai proposto un testo letterario qualsiasi ad una sua classe).

Per farlo si cura di tantissime cose; la lunghezza e la natura del “testo”, la sua contestualizzazione, la fase di presentazione, le attività di “lettura/decodifica” (dette in Clil jargon scaffolding, “mettere le impalcature”), con esercizi (tasks) graduati dalle abilità più semplici, definire, memorizzare, ecc., a quelle più complesse, sintetizzare, paragonare, ipotizzare…, in  modalità di lavoro individuali, di coppia, a gruppi, o altro, senza trascurare l’apparato delle note, la fase sintetica e finale di  produzione. Insomma, si attrezza per rendere “amabile” il testo. E quando pensa alla fase di produzione (non necessariamente alla fine del percorso), tiene conto della specificità culturale del mondo anglofono, per cui parla ad es. di oral presentation, report o research project. Da questo punto di vista (e da altri) i lettori madrelingua sono essenziali alla completezza del percorso di formazione degli studenti.

Il legislatore si riferisce forse a tutto questo quanto chiude con il suggerimento  di “suggerire tecniche e modalità di insegnamento Clil” al collega? Oppure il legislatore ha in mente qualcosa di simile a quanto descritto in un documento di Jean-Claude Beacco, della Nouvelle Sorbonne, “A descriptive framework for communicative/linguistic competences involved in the teaching and learning of history”, presentato alla Intergovernmental Conference di Praga nel novembre del 2007, e che fa subito riferimento alle “situazioni di comunicazione sociale in cui la storia è implicata”, dal discorso politico per l’interpretazione del passato alla stampa (generalistica e specialistica), fino al film o alla visita ad un museo? 

Non vi è traccia di questa dimensione sociolinguistica nelle indicazioni nazionali, quindi anche il successivo passo (individuare le abilità cognitive tipiche della storia e quelle linguistiche legate ad ogni situazione comunicativa) manca. Ma questa indicazione non potrebbe essere utile al docente di storia e di lingua che progettano? E non potrebbe forse venire da questo tipo di prospettiva un contributo essenziale del docente di lingua, che delle “situazioni di comunicazione sociale” fa, col metodo comunicativo, il cuore del suo lavoro? 

Il documento contiene molte altre indicazioni, ad es. i tipi di “discourse” (termine preferito a “testo”), da vari tipi di accademico a forme di “popularisation” (libri di storici professionisti,  amateurs, autori specializzati nel settore) fino a libri scolastici, oppure i tanti approcci possibili in una history class, dalla presentazione del docente o degli studenti (molto diverse fra loro) ai “debates” organizzati dagli apprendenti sulla base di testi ed appunti, o alla recensione di libri o programmi televisivi, o attività a progetto (ad  es. la promozione di un monumento segno visibile della memoria collettiva  di un popolo).

Forse varrebbe la pena di leggerlo, questo documento. E magari anche altri. A quattro occhi. 


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