Caro direttore,
il rapporto tra la scuola e il sistema di valutazione è al centro di non sopite tensioni. Il mondo della ricerca educativa appare diviso. Le annuali rilevazioni degli apprendimenti sono spesso vissute con disagio, e non sempre se ne capisce il senso e l’utilità. Anzi, tendono ad emergere soprattutto gli effetti collaterali negativi:



Se la credibilità di una scuola si gioca sui risultati delle prove (magari resi pubblici), sarà troppo forte la tentazione per esse di “barare” al gioco, sia direttamente (cheating), sia indirettamente (teaching to the test);

Se la reputazione di un docente si misura con gli esiti di un test ai propri allievi, quel docente cercherà di evitare le scuole difficili, le classi impegnative, le situazioni borderline (e comunque potrebbe trascurare la dimensione qualitativa, umanistica, relazionale del proprio insegnamento, per ripiegare su un algido tecnicismo); 



Se i genitori fossero spinti a scegliere le scuole in base ai punteggi Invalsi, aumenterebbero le differenze tra gli istituti, in relazione al ceto sociale delle famiglie di appartenenza, piuttosto che per le effettive “virtù” della scuola prescelta (tra l’altro, solo da chi può permetterselo);

Se gli allievi vengono esaminati con prove “oggettive”, potrebbero pensare che l’apprendimento consista nella capacità di rispondere velocemente ad una serie di item, più o meno strutturati.

Insomma, il rischio è forte ed è importante che chi si appresta a prendere il timone dell’Invalsi sappia individuare con serenità vantaggi, svantaggi, fenomeni di disturbo e soprattutto il valore aggiunto che un buon Sistema Nazionale di Valutazione può apportare alla vita della scuola.



Affidabile, ma anche comprensibile – È vero che un organismo scientifico nazionale come l’Invalsi deve esprimere il massimo di competenze scientifiche, culturali e docimologiche nei suoi organismi direttivi e nei suoi ricercatori. Ma è anche vero che la cultura della valutazione non si costruisce solo a partire da poche persone, ma ha bisogno di condivisioni molto più ampie. Il “valutato” deve poter dialogare con il “valutatore”, con reciproca sincerità, per cogliere il senso dell’azione valutativa, che è quella di stimolare la conoscenza, l’autovalutazione, il miglioramento. Ecco perché nel nuovo “corso” dell’Invalsi (come quello auspicato dai sottoscrittori del documento “Una cordata della scuola, per il nostro Invalsi”) è necessario ampliare il perimetro dell’elaborazione, ascoltare le migliori esperienze che già si sviluppano nelle scuole, far tesoro delle ricerche internazionali, non temere di precisare il significato di “garanzia pubblica” che un sistema di valutazione rappresenta per la scuola di un Paese. La scuola non può essere l’appendice per rilevazioni di dati, ma deve saper utilizzare in prima persona i dati valutativi, interpretarli, arricchirli… E l’Invalsi deve favorire la diffusione di buoni esempi di prove. 

Certo, forse serve un sancta sanctorum di prove validate, che rappresentino il core curriculum delle competenze di base che un Paese si aspetta di promuovere nei propri ragazzi (senza illudersi che questo nocciolo sia esaustivo), ma serve anche che il sistema accolga, analizzi, rilanci e sviluppi un vero e proprio archivio docimologico, capace di interloquire con le pratiche didattiche delle scuole, spesso assai routinarie.

Paghi uno, prendi tre? − E qui già sono necessarie numerose distinzioni, perché i piani sono diversi anche se si intersecano. Un conto sono le rilevazioni strutturate e sistematiche degli apprendimenti (con due “partiti” che si confrontano sulla preferenza da dare alla somministrazione di prove solo a campione o invece di carattere censuario) ed un conto sono le pratiche valutative che si adottano a scuola (pensiamo a voti, compiti, scrutini, ecc.) ed un altro conto ancora è il sistema degli esami con valore legale, con le sue tradizioni e le sue procedure amministrative (es. gli esami di Stato o le prove di ammissione ai corsi universitari). Sono questioni concettualmente distinte ed una stessa prova non dovrebbe essere consumata per supportare indifferentemente un test di conoscenza, una prova d’esame o un compito in classe. 

Un test standardizzato consente di “leggere” la situazione degli apprendimenti di popolazioni ampie (a campione o dell’intero universo), di trarre inferenze sullo stato di salute di un sistema scolastico (fatte le debite correlazioni tra tutte le variabili in gioco), di disporre di informazioni preziose per ogni scuola per analizzare i propri risultati. È però necessario dare il giusto peso alle prove (che non sono “tutto” l’apprendimento), evitando i facili riduzionismi, migliorando la qualità degli strumenti (ci possono essere test ben fatti, ma occorre un ventaglio più ampio di format, strutturati e non). 

Inoltre, appare forzato inserire una prova standardizzata all’interno di un esame (questo avviene attualmente per la terza media), perché cambia la destinazione d’uso di una prova, che da indizio di conoscenza assume invece un suo peso nella valutazione “legale” di fine ciclo di un singolo allievo. È una questione assai controversa, per la sua incidenza sul’esame e per i suoi effetti reali e simbolici. Resta comunque aperto il tema di un ancoraggio degli esiti degli esami ad alcuni standard nazionali di riferimento, che oggi non esiste, come conferma la distribuzione “localistica” dei punteggi. Un migliore allineamento darebbe più forza ai “bonus” ed ai “crediti” per l’accesso all’università. 

Ma è sulla valutazione “quotidiana” che osserviamo i maggiori divari. La scuola di base, reduce da trent’anni di valutazione formativa (cucinata però in molte salse: schede narrative, giudizi sintetici, scale centenarie con lettere dell’alfabeto, voti in decimi, ecc.), sembra non aver gradito il ripristino dei voti avvenuto nel 2008 (senza alcuna discussione preliminare e come un temporale estivo), ma infine si è adeguata, tenendo un profilo molto basso (ridurre i danni…). Nelle superiori i voti non sono stati mai in discussione, anzi sembra essersi consolidata una docimologia quasi “fai da te” che esibisce con disinvoltura griglie, obiettivi minimi, scale, ecc. 

Insomma, sarebbe quanto mai opportuno tornare ai “fondamentali” della valutazione: ai concetti dirimenti di misurazione e valutazione, al senso delle scale e dei punteggi, alla pluralità di strumenti e codici, a qualche necessaria incursione nel campo della valutazione autentica, all’esplorazione meno approssimativa del concetto di certificazione delle competenze.

Dai test ai processi organizzativi e didattici − È giusto, allora, rimettersi in gioco sulla valutazione, tornare a farsi buone domande, senza pregiudiziali: ad esempio, scoprire con sorpresa che paesi che puntano a livelli di eccellenza negli apprendimenti (Finlandia) non utilizzano valutazioni codificate fino ai 12-13 anni, perché prima vogliono prendersi cura in modo “personalizzato” di ogni singolo allievo, promuovendone talenti, partecipazione, scelte autonome; ma anche che la formazione ed il reclutamento dei docenti sono assai più impegnativi che da noi; che le scuole vengono visitate da équipe ispettive, che rilasciano report sullo stato di salute e indicazioni per il miglioramento. 

Non si vuole qui reclamare un maggior “controllo” sulla scuola e sui suoi risultati, ma una migliore conoscenza di ciò che avviene al loro interno, a partire da come le scuole si raccontano, si descrivono, si posizionano, anche perché stimolate da qualche “amico critico”. È da salutare positivamente l’avvio di progetti di sperimentazione per l’osservazione diretta del funzionamento delle scuole (come VSQ, Vales, VM ecc.). A fianco del focus sulle prove Invalsi (solo uno degli oggetti da ponderare) prende spazio l’analisi dei contesti sociali in cui opera la scuola, dei processi organizzativi attivati, delle scelte didattiche, delle condizioni professionali del personale), alla ricerca dei fattori di successo (e di criticità), per impostare insieme strategie di sviluppo e di miglioramento. Questa sembra essere la ratio che ispira il Regolamento sul Sistema Nazionale di Valutazione (Dpr 80/2013), da cui ci si aspetta un approccio più disteso e sereno alla valutazione, e non solo l’enfasi sui test di apprendimento. Ogni scuola dovrebbe infatti ricevere un feed-back importante sul modo migliore di affrontare i propri compiti formativi, per imparare attraverso il confronto (benchlearning). Tutt’altro sarebbe, invece, promuovere la competizione (benchmarking) attraverso la comparazione pubblica tra scuole, seppure con le medesime caratteristiche. Sembra più produttivo confrontarsi con se stessi, con gli andamenti degli anni precedenti, collegare i risultati a processi effettivamente attivati, decidere di cambiare sulla base dell’evidenza dei dati. Per ottenere risultati duraturi occorre assumere un approccio riflessivo, diacronico, che segue un fenomeno nel tempo (l’istruzione non è un blitz mordi e fuggi!).

Sull’uso dei dati − Molte ricerche segnalano che la pubblicazione secca dei dati sugli apprendimenti degli alunni potrebbe produrre “turbativa” nelle dinamiche delle iscrizioni. Rischia di aumentare il divario sociale tra le scuole e gli stessi risultati tendono a polarizzarsi (scuole migliori vs scuole peggiori) per effetto della maggiore stratificazione sociale dell’utenza. 

Dunque l’uso pubblico dei dati dovrà essere molto sobrio, accompagnato dalla capacità della scuola di descrivere i propri risultati, ma anche i processi, le risorse impegnate, l’impatto sociale ed etico delle proprie scelte (bilancio sociale) e non limitarsi a pubblicare graduatorie e posizioni in classifica. Anche l’Invalsi dovrebbe procedere con molta cautela lungo questa strada. 

È utile ri-precisare il senso delle rilevazioni, restituire i dati alle scuole per la loro ricerca, escludere ogni uso improprio, ad esempio ai fini di una valutazione del lavoro dei docenti. Non è pensabile “isolare” con qualche tocco statistico l’effetto dell’impegno di un singolo docente sui risultati degli allievi. Esiste un “fattore classe” che spesso influisce in maniera più consistente dell'”effetto scuola” e questo rimanda ai criteri di composizione delle classi, all’influenza di opzioni e specializzazioni offerte, al peso dei condizionamenti sociali. La scuola italiana presenta ancora troppe differenze legate ai fattori esterni (territorio, background sociale, clima civico, ecc.) ed una valutazione maldestra non farebbe che offrire una patina di scientificità a questi dati impliciti. Ecco perché è utile rendere più consistente la ricerca sul “valore aggiunto” apportato dall’intervento della scuola. 

Che sia “sistema” − Nel nuovo Sistema Nazionale di Valutazione l’Invalsi dovrà garantire l’affidabilità e la qualità degli strumenti di rilevazione degli apprendimenti e delle modalità di osservazione del funzionamento delle scuole. L’istituto dovrà aprirsi alla collaborazione con il mondo della ricerca e con le università, senza però trascurare il rapporto con le scuole. Troppo spesso le prove “oggettive” sono percepite come troppo lontane dai contesti reali del fare scuola e gli stessi “quadri di riferimento” che esplicitano le chiavi di lettura di quelle prove sono proposti come dati di fatto immutabili. Questo solco va rapidamente colmato, attraverso l’attivazione di rapporti più intensi con gli operatori scolastici (nelle fasi di costruzione e validazione delle prove, nella riflessione sugli esiti, nella retro-azione sulla didattica). Così pure nell’elaborazione degli indicatori sul funzionamento delle scuole occorre partire da quanto già le scuole stanno facendo, dalle loro reti, da standard elaborati dal basso… Ed è importante, come in parte è avvenuto nelle fasi di sviluppo del Progetto Vales, che operatori scolastici siano chiamati a partecipare alle sessioni di visita alla scuola. Sono professionalità che non si improvvisano, ma che vanno coltivate (dentro e fuori la scuola). 

Si sente poi la mancanza di un corpo ispettivo autorevole, accreditato e numeroso. Solo in questi mesi si stanno completando le procedure per il reclutamento di nuovi ispettori. Nel disegno originario le équipe di visita alle scuole avrebbero dovuto essere coordinate da ispettori, ma poi si è dovuto ripiegare su altre soluzioni (in Italia, al momento sono in servizio solo 29 ispettori, su un organico di 301 unità). 

Ed anche il supporto al miglioramento richiede la presenza di strutture e servizi di ricerca e formazione, di cui in questi anni si è perso traccia. Insomma, non basta affinare i programmi di valutazione, se poi vengono meno le condizioni per utilizzare le informazioni a disposizione. Il sistema di valutazione si regge su almeno tre “gambe” (Invalsi, Indire, ispettori), che si dovranno però raccordare all’interno di una apposita “cabina di regia” (Legge 10/2011), ma la quarta gamba, spesso dimenticata (cioè la scuola) è fondamentale. Non se ne dovrà dimenticare il futuro presidente dell’Invalsi. 

 

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