I dati sull’occupazione giovanile comunicati ieri dall’Istat e relativi al mese di agosto fotografano una situazione sempre più critica: il tasso di disoccupazione 15-24 è salito di un punto in un mese, attestandosi al 44,2%; sono 710mila i disoccupati tra i 15 e i 24 anni (l’11,9% della popolazione di riferimento).
Per quanto sia ancora troppo poco il tempo trascorso dall’approvazione del decreto Poletti, ovvero la prima parte, quella “urgente”, del Jobs Act renziano il cui nucleo è in questi giorni in discussione al Senato sotto forma di legge delega, è difficile non azzardare qualche valutazione sui primi esiti del decreto legge 34. Questo intervento, che sarà ricordato essenzialmente per la “liberalizzazione” del contratto a termine, pur contenendo qualche piccolo ritocco al contratto di apprendistato, non aveva specificatamente tra i suoi obiettivi la maggiore occupazione giovanile, quanto un più generale “movimento” nel mercato del lavoro. I dati di agosto (le legge di conversione è stata approvata a maggio) confermano l’impressione: qualche effetto positivo complessivo sembra esserci stato, permesso da una leggera crescita del numero dei contratti a tempo determinato (forma con la quale sono regolati circa il 70% dei nuovi rapporti di lavoro in Italia); l’occupazione giovanile non ha risentito delle novità.
D’altra parte per i giovani il ministero del Lavoro ha messo in campo la più poderosa e costosa operazione di politica attiva dell’Italia repubblicana: 1,5 miliardi di fondi europei dedicati al Piano nazionale di attuazione della Garanzia Giovani, versione italiana della Youth Guarantee promossa dalla Commissione Europea. Con il Piano, lo Stato (o, meglio, le Regioni, che sono costituzionalmente titolari delle politiche attive) si è impegnato ad offrire ad ogni giovane under 30 iscritto al portale dedicato (www.garanziagiovani.gov.it) un esperienza di lavoro, di stage o un percorso di formazione/riqualificazione entro quattro mesi dalla registrazione online. A cinque mesi dall’avvio formale dell’iniziativa (1° maggio) i dati monitorati dal ministero del Lavoro sono avvilenti: 212.779 giovani registrati (attenzione, la platea di interesse è di oltre due milioni; anche volendo essere prudenti non si possono non considerare almeno i 1.200.000 circa disoccupati 15-30); solo 62.639 (29%) quelli “già convocati” (“già”!); 20.789 le posizioni di lavoro presenti sul sito (una ogni dieci ragazzi registrati e ogni sessanta disoccupati).
Insomma, il grande Piano dedicato ai giovani non funziona e le riforme passate (decreto 34) e future (legge delega), per quanto meritevoli, non sembrano contenere alcuna particolare ricetta capace di invertire il trend. L’economia italiana è ferma e nessun piano a tavolino può generare occupazione e neanche scovare chissà quante offerte di lavoro non coperte, semplicemente perché queste non ci sono o, quando ci sono, si riferiscono a mestieri poco considerati dai giovani italiani.
Logico sarebbe, quindi, non intestardirsi sulle politiche del lavoro e prevenire prima di curare, ovvero intervenire sulla formazione ricevuta dai giovani prima dell’impatto (traumatico) col mondo del lavoro. Questo compito è stato assegnato al progetto “La buona scuola” presentato da Matteo Renzi meno di un mese fa e ora scomparso dal dibattito (come da strategia ormai consolidata di questo Governo: ricerca del consenso sul progetto, sullo slogan e poi repentino spostamento dell’attenzione mediatica a un altro tema quando la discussione incomincia a entrare nel merito tecnico delle proposte).
E’ indubbio il passo avanti culturale sull’integrazione scuola-lavoro di questo Programma rispetto a quanto fatto nel 2012 (Profumo/Fornero) e nel 2013 (Carrozza). Nessuna proposta è “mai sentita”, ma non si era forse mai visto (unica eccezione la stagione 2003 della Moratti) che a fare queste proposte fosse il Governo. Purtroppo però sono ancora solo buone intenzioni sulla carta. La speranza è che possano avverarsi senza troppi compromessi: avrebbero un effetto sul mercato del lavoro giovanile molto più evidente di altri interventi ben più chiaccherati e poi, alla prova dei dati, dimostratisi inefficaci.
@EMassagli