E’ ancora nelle sale cinematografiche italiane The giver, tratto dall’omonimo romanzo del 1993 di Lois Lowry, edito in Italia nel 2010 da Giunti. Il film, con uno straordinario Jeff Bridges nei panni del donatore, un’algida Meryl Streep in quelli dell’autorità del paese in cui si svolgono i fatti narrati e un giovane e intenso Brenton Thwaites nei panni di Jonas, il protagonista della storia, è piuttosto fedele al libro e sopperisce alle difficoltà di rendere alcune riflessioni in esso presenti con un sapiente uso della fotografia e della musica. Il tema non è nuovo e potremmo fare alcuni riferimenti ai più famosi 1984 di Orwell e Fahreneit 451 di Bradbury o anche ai vari the day after spesso frequentati nella letteratura e nel cinema di fantascienza: gli abitanti di un territorio che ha vissuto un periodo di gravi contrasti e difficoltà decidono di compiere una vera rivoluzione, realizzando una società  pacificata ed estremamente organizzata, in cui è stata rimossa ogni traccia della storia passata.



Quelle che si aggirano nelle strade ordinate e perfette della città sono persone senza memoria alle quali sono state tolte tutte le emozioni: non conoscono il dolore, la paura, il dolore e l’amore. Vivono in famiglie perfette formate da un uomo e una donna con due figli che non sono loro figli, ma che gli sono stati assegnati dal comitato degli anziani che pianifica qualsiasi attività della loro vita. I bambini vengono strappati alle loro genitrici e affidati alle unità familiari che hanno le caratteristiche adatte per accoglierli e allevarli, fino a quando saranno in grado di intraprendere la loro vita lavorativa nel settore che gli anziani avranno individuato per loro. Raggiunta l’età in cui non può più rivestire un ruolo dentro la società, ogni persona viene congedata, così come i bambini che non rientrano negli standard stabiliti. 



In questo mondo uniforme e protetto, solo una persona ha la capacità di ricordare il passato, da utilizzare in caso di necessità. Jonas, all’età di dodici anni viene destinato a custodire le memorie dell’umanità, a rivivere le emozioni che fino a quel momento gli sono state negate e che gli verranno trasmesse dal donatore. Il suo viaggio nella conoscenza di ciò che è stato cancellato in tutti per consentire alla società di difendersi dal male e dal dolore è una straordinaria immersione nella realtà, un’ intensissima e accelerata introduzione alla realtà: il donatore gli fa vivere esperienze di gioia profonda, e sono cose semplici come una scivolata con la slitta sulla neve e la scoperta di un luogo caldo e buono come una casa dentro la quale una famiglia è riunita per il natale; ma gli fa vivere anche la tragedia della guerra, della morte, del dolore e dell’abbandono.



Jonas lentamente torna a vedere i colori, ad apprezzare le differenze che, per quella società, costituiscono il motivo delle tensioni che potrebbero portare alla catastrofe e che dunque sono state eliminate. Il donatore gli rivela che con l’iniezione del mattino gli anziani tengono sotto controllo le emozioni e gli istinti e con uno stratagemma Jonas non si sottopone più a questo rito: guarda la sua amica Fiona, che adesso si occupa dei bambini, con occhi diversi, tenta di spiegarle che cosa gli sta succedendo, la bacia. E’ l’amore, le dice. Intanto nella sua casa il piccolo neonato Gabriel non fa progressi e il papà di Jonas, che è un puericultore, si vede costretto a congedarlo. Sarà il donatore a mostrare a Jonas che cosa si nasconde dietro questa pratica così asetticamente definita: i vecchi e i bambini che non rientrano negli standard vengono semplicemente uccisi e anche suo padre e forse anche Fiona in futuro provvedono a questo. Il donatore dice a Jonas che naturalmente loro non sanno quello che fanno, ma Jonas adesso lo sa, non ha più tempo per pensare se è più giusto lasciare le cose come stanno o intervenire per cambiarle, non c’è tempo per chiedersi se è meglio la libertà, anche quella di fare il male, rispetto all’ordine apparentemente giusto in cui è cresciuto: non c’è tempo perché deve salvare Gabriel a cui lui adesso vuole bene. 

D’accordo con il donatore e con l’aiuto di Fiona e Asher, Jonas fugge con il bambino inseguito dalle truppe che gli anziani gli hanno messo alle calcagna, riesce a raggiungere e superare il confine della memoria: con Gabriel troverà quella casa nella neve che aveva conosciuto grazie al donatore; nella sua città, grazie a lui e all’aiuto del donatore, gli uomini e le donne torneranno forse uomini e donne capaci di scegliere e di sbagliare, di ridere e piangere, di dire di sì e dire di no. Ci sono una serie di altri importanti passaggi in questo film che andrebbero meglio analizzati, ma mi sono già preso molto spazio per la sua narrazione e mi piace invece cercare di dire che cosa può fare di questo film — e del libro — una grandissima esperienza da consigliare non solo ai più giovani.

Potrebbe infatti sembrare apparentemente anacronistica una storia come questa: se il suo tentativo, come in genere succede per i romanzi di fantascienza, è quello di insegnarci qualcosa che valga oggi, sembra muoversi in luoghi inopportuni, verrebbe da pensare. Che cosa ha da spartire la nostra società con quella rarefatta e ordinata del libro? Noi viviamo appunto, e invece, in una società in cui tutto è permesso: che cosa abbiamo da spartire con questa storia? Peraltro il mondo di Jonas non è una dittatura opprimente, l’ordine non viene mantenuto con la violenza, non ci sono dissidenti imprigionati, al punto che verrebbe da chiedersi perché qualcuno dovrebbe ribellarsi a questa soffice e ovattata società dell’uguaglianza e della precisione. Contro cosa o per che cosa combatte Jonas, davvero? Contro cosa o per che cosa dovremmo combattere noi, davvero? 

Intanto mi sembra che il nostro mondo non sia davvero così lontano da un mondo che cancella ogni memoria: credo anzi che proprio nella sovraesposizione alle sensazioni, alle esperienze, nella loro accelerazione la nostra civiltà non favorisca davvero un’esperienza della realtà, che è poi la capacità di dare un giudizio, di rischiare la propria libertà nel gesto compiuto o da compiere e non semplicemente provare le cose. Ecco: forse negare le esperienze, come in The giver, e moltiplicarle distruggendo qualsiasi criterio per giudicarle, come accade nel nostro mondo, sono due modi per cancellare memoria e libertà dal cuore dell’uomo.

Ho amato questo libro, questo grande romanzo di formazione, leggendolo con i miei alunni lo scorso anno scolastico: era l’appuntamento settimanale con le domande che si agitavano anche in loro, e mi ha consentito di non dovere dare risposte teoriche a quelle domande — chi le ha, poi? — ma di mostrare, di guardare insieme ai ragazzi una direzione, un orizzonte grandissimo dentro il quale siamo chiamati a vivere. Fuori da qualsiasi metafora o paragone, comunque Jonas è uno che vede finalmente come è fatta la realtà, grazie a un maestro: e ogni volta che mettiamo la realtà nelle mani e nel cuore di un ragazzo corriamo il rischio che diventi Jonas, che diventi un uomo che sceglie.

Che può, anzi deve, anche tradire il maestro. Ma crescere forse significa questo:  ricevere un dono e custodirlo nell’unico modo in cui è possibile farlo, cioè offrendolo, condividendolo con gli altri. The giver, tanto il libro quanto il film, hanno il potere di commuoverci mettendoci nel flusso vertiginoso di una storia che parla di noi, della nostra miseria e della nostra grandezza, dell’inferno o del paradiso che abbiamo la possibilità di creare con le nostre stesse mani. 

E allora, contro cosa o per che cosa dovremmo combattere noi? Farò come ho fatto con i miei alunni, lo lascio dire al libro, con una delle sue immagini finali, senza astrazioni, fronzoli e teorie: “(Jonas) sapeva che scintillavano di là dai vetri e dentro le stanze: erano – ne era sicuro – le luci rosse, azzurre e gialle che ammiccavano dai rami degli alberi, là dove le famiglie generavano e conservavano memorie, dove celebravano l’amore… All’improvviso seppe con assoluta, gioiosa certezza che laggiù, là davanti, lo stavano aspettando; e aspettavano anche il bambino. Per la prima volta udì qualcosa che – lo seppe senza ombra di dubbio – era musica“.  

Se un posto così può esistere grazie agli uomini, non c’è un’altra cosa che noi dobbiamo fare se non fare in modo che uomini così esistano, tanto liberi da non confondersi sulla felicità; tanto grandi da imparare — da Dio?  — ad amare di più la nostra libertà che la nostra salvezza.