Le riforme scolastiche — o i tentativi di riforma — a scavalco degli anni duemila avevano suscitato enormi dibattiti, fiumi di inchiostro, manifestazioni oceaniche, forti passioni e dialettica serrata.
I temi erano sentiti. Spesso il dibattito era viziato dall’ideologia, ma sembrava che “ne andasse” dei giovani e del futuro del Paese. Si pensi alla riforma Moratti e al “diritto dovere di istruzione e formazione”, alla riforma dei licei e degli istituti tecnici e professionali di Mariastella Gelmini, o alla legge Aprea sulla riforma degli organi collegiali e dell’autonomia scolastica, ma anche al tentativo del ministro Berlinguer di introdurre la valutazione per gli insegnanti, naufragato drammaticamente.
Oggi si vive una situazione paradossale: Renzi e Giannini cercano disperatamente di far parlare della loro ultima riforma, ma il rapporto La buona scuola non scalda gli animi. Non c’è una vera opposizione, ma nemmeno un gran seguito. Nonostante dopo anni si mettano sul piatto parecchie risorse e si prometta di assumere tutti i precari, nemmeno i sindacati sono contenti.
Già pochi giorni dopo la pubblicazione, un sondaggio riportava lapidario: solo il 25 per cento degli italiani trova convincente la proposta di Renzi sulla scuola.
La consultazione pubblica è iniziata da un mese e terminerà il 15 novembre. Siamo a metà strada e al Miur, con tutta evidenza, non sono soddisfatti della partecipazione: poco più di 30mila sarebbero i “questionari” compilati sul sito dedicato. Non molti per la verità, pensando alla platea degli interessati: un milione di persone che lavorano nella scuola e otto milioni di studenti e relative famiglie.
Lo stesso Renzi, nella sua newsletter del 5 ottobre implorava — “vi prego, vi prego, vi prego” — di compilare il questionario; vi sono uffici scolastici periferici che inviano richieste accorate alle scuole, altri che addirittura trasmettono moduli cartacei chiedendo una restituzione a studenti, genitori e dirigenti scolastici.
Sono iniziati in questi giorni e continueranno fino a metà novembre ben 142 incontri e dibattiti in diverse città italiane, con la mobilitazione di tutto il ministero dell’Istruzione; chissà se e quanto saranno partecipati.
E’ legittimo chiedersi a cosa è dovuta questa scarsa partecipazione.
Si dia uno sguardo al rapporto: si tratta di 136 pagine che, nonostante la grande cura grafica e di impaginazione, restano parecchie da leggere. Quanti saranno i docenti che le avranno lette tutte? Per non parlare dei genitori. Forse qualche studente…
Certo, a ben guardare, a pagina 129 ci sono 12 punti che dovrebbero riassumere il volume, ma proprio qui si nota una certa debolezza. Certo, le parole chiave ci sono, i principi di rinnovamento pure (merito, trasparenza, valutazione, la scuola più vicina al lavoro), ma oltre all’assunzione di 150mila precari nel 2015 — qui sono i precari stessi che non ci credono — e l’annunciata fine delle supplenze, le altre proposte paiono poco tangibili.
Certo, c’è il premio ai due terzi migliori dei docenti ogni tre anni. Tuttavia questo è uno dei punti contestati dai sindacati e — si badi — non perché contrari al merito, ma perché visto come un trucco per bloccare gli scatti stipendiali per tre anni.
Così come non pare così degno di nota l’aumento di ore di musica, sport e arte a scuola; non è visto come rivoluzionario insegnare a programmare, e forse non è ormai nemmeno sufficiente fare più ore di alternanza scuola-lavoro. Per finire, sono in pochi che credono che si riusciranno a mobilitare risorse economiche private per la scuola con semplici incentivi fiscali.
Forse il limite di comunicazione di questa operazione è proprio voler far passare “la buona scuola” come un elenco di interventi pronti da attuare, mentre è evidente a tutti che così non è e se fosse così sarebbe ben poco: molte delle proposte sono generiche, non c’è un testo normativo, non c’è stata nemmeno un’approvazione in Consiglio dei ministri.
Allora meglio sarebbe stato presentare il testo come una base di discussione aperta, ampia, per lo sviluppo di una riflessione su quello che vuole essere la scuola italiana tra dieci o vent’anni.
Perché il documento ha spunti interessanti, ma ancora troppo vaghi per poter prendere una posizione netta favorevole o contraria: si parla di riforma degli organi collegiali, ma in che direzione? Si introduce una selezione del personale da parte delle scuole, ma l’assunzione resta per concorso. Si riprende il tema della carriera e dello stato giuridico degli insegnanti, ma dopo aver accennato al “docente mentor”, ci si focalizza solo sugli “scatti di competenza”.
E’ auspicabile che allora il dibattito sia un po’ più ampio di quello tracciato dai binari del questionario ufficiale, che si occupa più di questioni di dettaglio ed è sempre “a valle” delle scelte già prese dal Governo.
Si utilizzi il documento del governo per mettere a tema le questioni enormi dello sviluppo dell’autonomia scolastica, delle competenze dei docenti, delle modalità della loro assunzione, del rapporto tra scuola e lavoro, della formazione post diploma professionalizzante, del ruolo di regioni, province (pardon, “enti di area vasta”) e comuni. Si alzi lo sguardo oltre i nostri confini e si prendano sul serio gli indicatori di confronto con gli altri Paesi Ocse, dal rapporto studenti/docenti al numero di giovani dispersi fino a quelli con un titolo di laurea.
Si riparta dal basso, con dibattiti ed un coinvolgimento vero e non edulcorato, allora si ritroverà un’altrettanta reale risposta da parte degli italiani.