Fate conto che tutti gli studenti della Campania scompaiano: anzi, che non siano mai esistiti. Nei documenti sulla riforma della scuola non se ne parla, non ci si cura del loro futuro, della fine che faranno i loro insegnanti. Sciocchezze! Chi mai farebbe una cosa del genere? Nessuno, naturalmente: eppure gli studenti previsti in Campania per l’anno in corso sono 933.149, un pochino meno dei 993.544 studenti iscritti lo scorso anno alle scuole paritarie: sono loro gli scomparsi, i missing in action, di cui mai o quasi mai si parla nei progetti di riforma, e La Buona Scuola non fa eccezione, mentre L’education per la crescita di Confindustria al punto 5 chiede di inserire anche le scuole paritarie nel piano di attuazione della piena autonomia (e forse avrebbe potuto approfondire l’importanza del mercato educativo come occasione di sviluppo del mercato del lavoro intellettuale). 



Eppure riesce difficile pensare che siano tutti figli di papà gli oltre 600mila iscritti alla scuola materna, i 52mila stranieri, i 12mila disabili. Scomparsi. La linea di pensiero dei politici e degli opinionisti italiani sembra la stessa della corte del “caso Mozert”, che negli Stati Uniti nel 1987 sentenziò che “i genitori ricorrenti (se non sono soddisfatti della scuola pubblica, nda) possono mandare i figli ad una scuola religiosa, ad una scuola privata, o educarli a casa”, pagando s’intende.



Ho introdotto in modo volutamente provocatorio il tema della scuola paritaria per giungere ad affermare che nel nostro paese, a prescindere dal peso delle ideologie, quando si tratta di scuola paritaria si ha a che fare con un oggetto su cui molti parlano ma che resta sostanzialmente sconosciuto. Sto curando un volume sulla scuola pubblica non statale, che uscirà in novembre, e ci siamo trovati di fronte ad una notevole difficoltà di raccogliere i dati e soprattutto ad una grande scarsità di documentazione scientifica: su come funzionino le scuole paritarie, sulla qualità degli apprendimenti, sulle caratteristiche dei docenti e degli alunni esistono solo i meritori rapporti tematici del Centro Studi sulla Scuola Cattolica, che però non esaurisce il settore. 



Eppure sarebbe importante capire se, in un momento in cui le risorse scarseggiano e il livello qualitativo della scuola italiana nel suo insieme presenta alcune preoccupanti criticità, investire in un modello organizzativo diverso possa migliorare il rapporto costi benefici, consentendo dei risparmi a parità di risultato o, preferibilmente, mantenendo ferma la spesa e migliorando i risultati. Uno dei pochi dati certi è che nella scuola paritaria il costo pro capite di un ragazzo è inferiore a quello della scuola statale, ma quanto agli esiti le opinioni si dividono tra chi ritiene che non siano migliori nelle scuole paritarie, e chi ritiene che lo siano, ma solo perché la condizione socioeconomica delle famiglie è superiore. 

Non è mai stata fatta una ricerca sistematica che analizzi il rapporto costi/benefici, tenendo presenti almeno gli esiti cognitivi (anche se gli studiosi si indirizzano sempre più a ritenere fondamentali anche gli esiti non cognitivi, cioè la socializzazione ai valori, il senso civico, la capacità di collaborare…) paragonando scuole pubbliche statali e non statali.

Occupandomi da molti anni di questi temi, mi sono formata la convinzione che la variabile determinante non è tanto la divisione pubblico/privato, quanto il margine di autonomia di cui le scuole dispongono, ad esempio nella scelta dei docenti e dei dirigenti. Mi chiedo allora se non sia giunto il momento di tentare una sperimentazione di piena autonomia in un paio di zone del paese, magari incominciando dalle scuole secondarie di secondo grado, selezionando scuole che insistono sullo stesso territorio e consentendo loro di agire con quella autonomia didattica, organizzativa e finanziaria che la legge prevedeva e che è stata progressivamente sterilizzata. Le scuole statali dovrebbero disporre di una cifra analoga a quella che lo stato spende per gli studenti ad esse iscritti, e le scuole paritarie dovrebbero ricevere un qualche tipo di finanziamento che consentisse un più largo accesso anche ad un’utenza non tradizionale: il confronto potrebbe quindi avvenire alla pari, e porterebbe non tanto a riconoscere la supremazia dell’una o dell’altra, quanto la possibilità effettiva di uscire dal centralismo. 

Infatti tutte le scuole coinvolte nel progetto sarebbero scelte dalle famiglie, libere di optare per le une o per le altre senza eccessive penalizzazioni economiche, e confrontandole tra di loro e con il resto del sistema si potrebbe capire se i risultati che ottengono sono, nelle une e nelle altre, significativamente diversi da quelli ottenuti nelle “normali” scuole statali. In altri paesi, nelle scuole di scelta (tenute sotto controllo le caratteristiche socioeconomiche), si riscontra un sistematico anche se lieve migliore rendimento che non nelle scuole subite, anche se i dati non sono incontrovertibili. Anche solo a parità di risultati, un modello di sistema pubblico realmente integrato garantirebbe la libertà di scelta prevista dalla nostra Costituzione, a costi inferiori per la comunità. Se poi i risultati effettivamente fossero migliori, la tutela di un diritto si dimostrerebbe anche vantaggiosa per la spesa pubblica. 

Certamente i dettagli sono tutti da mettere a punto, ma condivido in pieno quanto scrive Forman, un giurista di Yale, a conclusione del suo ampio testo sulle scuole charter, affermando che servirebbero più studi sul tema della scelta e del mercato educativo, ma soprattutto che deve cambiare il tono del dibattito: “Nella discussione si è fatto ricorso più alla retorica che all’evidenza… in alcune circostanze, le riforme basate sulla deregulation e su una maggiore presenza del mercato sembrano promuovere la partecipazione dei gruppi svantaggiati, mentre in altri casi l’equità sembra favorita da una regolamentazione statale. Così forse vale la pena di abbassare un po’ la voce nello scontro urlato tra stato e mercato nell’educazione”.