Nel nostro paese latita il coraggio di fare i cambiamenti giusti (lasciamo stare, per carità, la parola riforme) adducendone le giuste e vere ragioni. Si invoca sempre la mancanza di soldi, il che peraltro non è sempre convincente. Nell’abolizione della componente esterna della commissione all’esame di stato ex-maturità probabilmente la ragione vera sta nel fatto che oramai si tratta abbastanza notoriamente di una foglia di fico. 



Ma questa misura che molti considerano oramai stramatura dopo l’andirivieni Moratti-Fioroni-Gelmini non suscita la stremata e pacifica approvazione che ci si aspetterebbe. Circola infatti in questi giorni un appello promosso dai sociologi dell’educazione che la valuta negativamente e chiede il ripristino della situazione precedente. Le scuole peraltro non sembrano dolersi più di tanto di tale cambiamento: prescindendo da eventuali ragioni di opportunismo, da molte parti si pensa che l’autonomia giustifichi variazioni al curricolo che i commissari esterni non sempre sono in grado di valorizzare. Punto di vista molto parziale: non sempre gli insegnanti hanno presente che, fuori delle loro aule, c’è un sistema sociale che deve comunque reggersi in piedi sull’affidabilità.



Le ragioni degli oppositori invece sono sostanzialmente due. 

La prima: senza un minimo di controllo ognuno può fare ciò che vuole, al limite poco. Prendiamo  però in considerazione il funzionamento vero dell’esame: l’unico reale strumento di “controllo” è la seconda prova, cioè quella relativa alla specializzazione del corso i cui esiti sono poco manipolabili anche da parte di una commissione tutta interna. La prima prova misura le capacità espressive ed argomentative del candidato che, giunti ai 19 anni, dipendono in misura piuttosto limitata dal lavoro della scuola; la terza è preparata dagli stessi membri interni e quanto a tutto il resto i commissari non possono che sondare la preparazione sul “programma” che viene loro presentato. Un presidente volenteroso può segnalare le eventuali carenze di preparazione nella sua relazione finale, che finirà in un cassetto. C’è  da osservare in molti anche un po’ di schizofrenia: da un lato si invocano controlli esterni, dall’altro però si vede con ostilità, nel migliore dei casi con indifferenza, ogni tipo di valutazione dell’operato degli insegnanti e di differenziazione delle loro funzioni e carriere.



La seconda ragione è quella dell’affidabilità dei risultati e pertanto della famosa, interminabile ed inconcludente disputa sul valore legale dei titoli di studio. Chi cercasse peraltro nella legislazione scolastica una norma specifica nel merito, non la troverebbe. Gli accessi agli studi terziari sono abbastanza liberamente normati, tanto è vero che in questi anni il peso dell’esame è stato piuttosto ballerino e per renderlo obbligatorio ci sono volute disposizioni apposite. Il che ha portato le università allo sbizzarrirsi in test dai contenuti fantasiosi. Il privato si regola abbastanza liberamente e comunque è condizionato dalle regole dei contratti di lavoro di contenuto privatistico che i sindacati hanno cercato di ancorare ai titoli di studio per limitare gli arbitri dei datori di lavoro. 

Ma la Costituzione stabilisce all’art. 97 che agli impieghi della pubblica amministrazione si acceda attraverso concorso e l’accesso è condizionato al possesso di certi titoli. Certo che la tabella dei punteggi non sta in Costituzione e che sarebbe interessante capire quanto sia obbligatoria.

Sì, perché il grido “Il re è nudo!” è venuto nell’ultimo decennio proprio dal fatto di avere un panorama chiaro di quali voti si danno in questi esami nelle varie parti di Italia.

Fino agli inizi degli anni 2000 non se ne sapeva niente; circolavano essenzialmente voci ed impressioni. Dal 2002-03, attraverso la sperimentazione del programma Conchiglia su cui le commissioni che lo volevano caricavano i dati anche dei risultati degli esami, si cominciò ad avere qualche punto di riferimento, grazie alle informazioni disponibili sul sito dell’Invalsi che raccoglieva e trattava i dati. A partire dal secondo decennio di questo secolo siamo arrivati ad avere informazioni precise in proposito, grazie ai dati lodevolmente trattati dal Servizio statistico del Miur e a disposizione di tutti sul sito.

Prendiamo in considerazione gli ultimi due anni disponibili, quando le commissioni erano ancora per metà esterne.

La media dei diplomati 2012 si sovrappone a quella del 2013: media nazionale al 98,7%, Campania, Puglia, Basilicata e Calabria al 99,2%, Piemonte, Lombardia e Veneto di poco sopra il 98%.

Voto medio dei diplomati. Nel 2013 al primo posto la Calabria (78,1%) all’ultimo la Lombardia (74,3%); nel 2012 ancora al primo posto la Calabria (77,6%) all’ultimo la Lombardia (73,8%).

Voto massimo con lode. Nel 2013 in testa il Sud con Puglia (1,7%), Calabria (1%) e Sicilia, Sardegna e Basilicata (fra 0,8 e  0,6%);in fondo il Nord con Lombardia (0,3%),  Veneto, Piemonte e Friuli  fra 0,5 e 0,6%. Stessa sequenza nel 2012: in testa il Sud con Puglia (1,4%) Calabria (0,8%) e  Sicilia, Sardegna e Basilicata (0,6%) in fondo il Nord  con Lombardia (0,3%), Veneto e  Friuli (0,3%), Piemonte (0,5%). 

Il problema nasce quando si va a vedere coma vanno invece le valutazioni standardizzate esterne. Ormai tutti conoscono Pisa, che da cinque edizioni ratifica una classifica delle regioni italiane rovesciata rispetto a quella degli esami di stato. Meno noti forse i risultati del Snv Invalsi ed in particolare quelli relativi alla seconda superiore che è l’annualità più vicina a quella in cui si sostiene l’esame di stato. Rimanendo al 2013, troviamo che i risultati della prova di italiano su media 200 nazionale ottengono un punteggio di 214 per la Lombardia e di 187 per la Calabria, superata in basso da Sicilia (183) e Sardegna(186). In matematica siamo lì: 215 per la Lombardia e 187 per la Calabria, sempre superata in basso da Sicilia (181) e Sardegna (178). Si son prese in considerazione in particolare queste regioni per la loro posizione nella graduatoria dell’esame di stato, ma tutto il resto si sgrana più o meno allo stesso modo. 

Sarebbe interessante ampliare ai risultati Invalsi l’approfondimento fatto in alcune edizioni di Pisa sulla relazione fra gli ultimi voti “ufficiali” (pagelle?) dati dalle scuole ed il livello dimostrato nelle prove dell’indagine. 

I dati di tutte le scuole italiane ci sono e sono stati anche oggetto di lavoro nelle visite sperimentali alle scuole realizzate l’anno scorso nell’ambito del progetto Vales. Una aggregazione su base territoriale regionale degli stessi potrebbe eventualmente validare l’ipotesi che era uscita da Pisa, e cioè che le scale interne di valori delle classi sono sostanzialmente corrette ma che gli insegnanti delle diverse regioni le “appendono” a livelli molto diversi.

Chi ha fatto in decenni non sospetti gli esami di stato in regioni diverse dalla propria ha pensato ad alterazioni artate dei risultati. Ottimisti: il fatto è che il livello dei voti lo determina — in mancanza di centimetri minimamente attendibili — la common opinion locale. Che non si accorge magari neanche di essere o troppo pessimista (come nel caso del Nord Italia) o troppo ottimista (come nel caso del Sud Italia). Se si pensa di essere tanto bravi come si è, non si può migliorare e questo vale sia per studenti che per insegnanti.

Obiezione. Pisa ed Invalsi riguardano il secondo anno della scuola superiore, mentre l’esame di stato lo si fa al quinto. Ma cosa succede nei tre anni che intercorrono? Risposta: saper leggere, scrivere e far di conto non conta più niente? o i peggiori vengono tutti bocciati dal secondo anno in avanti?

In conclusione, sembra difficile credere ancora che avere 3 o 2 commissari esterni nella commissione dell’esame di stato possa cambiare alcunché.

Tutte le volte si arzigogola su come cambiare il format: tesina o argomento a piacere? seconda prova fatta dalla scuola? Difficile pensare che in tal modo si cambi radicalmente la qualità dell’esame. E’ noto che la scuola italiana ha infinite capacità di adattamento ai cambiamenti ed è anche presumibile che l’aumento fino al 99% delle promozioni all’esame, nonostante i cambiamenti di format, sia dovuto alle tendenze sociali e non alle articolazioni tecniche dell’esame stesso.

Naturalmente la soluzione seria sarebbe quella di introdurre una parte standardizzata esterna nell’esame. La Germania, dopo la batosta di Pisa del 2000, lo ha fatto e ne sembra abbastanza soddisfatta. Ma il nostro è un paese che mal sopporta l’esistenza di questo tipo di prova persino all’interno dell’esame di terza media, le cui ricadute pratiche, per quanto riguarda il voto, sono nulle. Frugando negli archivi, si possono trovare dichiarazioni quasi concordi del 2009 (!) in cui il sottosegretario uscente Bastico ed il ministro entrante Gelmini di fronte all’evidenza — già allora —  dei fatti parlavano di “verifiche come quelle già introdotte alle medie preparate dall’Invalsi: garantirebbero una maggiore oggettività nella assegnazione dei voti finali …” (Bastico)

Siamo arretrati da lì come i gamberi. Dobbiamo limitarci a sperare che una qualche valutazione standardizzata esterna sulle competenze di base nel corso del quinto anno possa aiutare un poco le   università e i datori di lavoro a capire se Pierino sa leggere e scrivere e far di conto. Competenze che, come ognun sa, sono buoni predittori di quasi tutto il resto.

Forse questo ci aiuterebbe ad evitare le domande su Chomsky nei test per l’ammissione a Medicina (ma comunque, ministro, stia tranquilla, gli insegnanti — almeno quelli del ramo — sanno chi è).