Dopo sette anni (la misura era stata già adottata a suo tempo dal ministro Moratti nel 2003 e poi abrogata nel 2007 dal ministro Gelmini) il pendolo che da alcuni decenni oscilla tra la scelta della commissione di docenti esterni e quella di docenti tutti interni all’esame di stato, torna a pendere verso quest’ultima scelta: a partire da giugno 2015 niente più commissari esterni. Le commissioni saranno composte solo dal presidente e da tutti e sei i commissari interni, cioè gli stessi docenti che alla fine delle lezioni hanno già giudicato i propri alunni decidendo o meno di ammetterli a quell’esame che loro stessi, pochi giorni dopo, andranno a condurre. Il commento di Ezio Delfino, presidente di Disal, che alza la posta: “l’esame di stato è un rito anacronistico senza senso, va sostituito con una certificazione delle competenze. Previa abolizione del valore legale”. E il governo, dice Delfino, se vuole può farlo.



Tutto bene dunque? O ci sono dei pro e contro?
Alcuni sostengono che è un vantaggio avere agli esami tutti docenti che già conoscono bene gli stessi candidati maggiormente in grado di contestualizzare l’esame finale valorizzando il percorso scolastico dei propri alunni. Altri sostengono che la commissione tutta interna faccia perdere credibilità all’esame ed al titolo di studio che viene rilasciato, e che tale scelta sia in controtendenza con le pratiche in uso nei principali sistemi scolastici europei e con le indicazioni dell’Ocse, che riferiscono degli effetti positivi degli esami finali esterni sui livelli di apprendimento degli alunni



Lei che ragione si dà della proposta contenuta nella legge di stabilità?
La risposta è molto semplice. Il nuovo modello di esame proposto, con tutti membri interni ed il solo presidente esterno, non ha nessun motivo di tipo educativo o migliorativo, ma esclusivamente economico: la legge di stabilità prevede tagli per circa un miliardo, all’interno del quale il risparmio di circa 140 milioni — mediamente spesi per la gestione della vecchia maturità — potrebbe rappresentare per il decisore politico una appetibile voce di costo da abbattere.

Qual è il suo punto di vista?
Io ritengo più radicalmente che quello che andrebbe risparmiato dovrebbe essere l’intero esame di stato: un rito ormai anacronistico, un modello di valutazione finale dello studente a cui ormai non crede più né il mondo delle università, che seleziona gli studenti prima dell’esame di stato, ma nemmeno il mondo del lavoro, che non guarda certo il voto finale della maturità ma le competenze e le attitudini di chi vuole assumere.



Chi difende la formula mista (interni più esterni) si appella alla necessità di salvare un minimo di valutazione esterna, di oggettività.

Stiamo ai fatti. La percentuale dei promossi alla maturità a anni si attesta ormai a valori vicini al 100 per cento di promossi: il semplice buon senso suggerirebbe che è anacronistico difendere la dignità di un modello privo di vera efficacia certificativa. Oggi la serietà di una preparazione di uno studente non si tara più su un ultimo atto, per quanto rispettabile, come l’esame di maturità. Se anche di risparmio si deve trattare allora si abbia il coraggio di una abolizione del modello attuale di esame finale del II ciclo (e, perché no, anche di quello del I ciclo di istruzione).

Li mandiamo fuori senza nemmeno un pezzo di carta?
Diamoglielo, ma sia almeno un pezzo di carta che conta qualcosa: si introduca, come negli altri paesi europei, una procedura efficace di attestazione finale di competenze, questa sì eventualmente affidata a soggetti terzi certificatori.

Che fare nell’immediato, a fronte della proposta in discussione di nominare una commissione di membri interni? 
Vale la pena oggi, per realismo, accogliere la proposta del governo Renzi di introdurre la commissione interna di maturità, ma solo per quest’anno e a condizione che già nella stessa legge di stabilità sia scritto che questo modello viene introdotto in via provvisoria per ragioni di risparmio della spesa pubblica. Ci dovrebbe poi essere un impegno formale del Governo a presentare entro alcuni mesi una norma per l’abolizione del valore legale del titolo di studio, la fine di questo tipo di esame di stato per il II ciclo e l’introduzione di moderne modalità di certificazioni finali che valorizzino tutto il percorso e le esperienze realizzate nell’ultimo anno dello studente.

Lei parla di realismo, ma le sembra realistico proporre l’abolizione del valore legale del titolo?
Nel nostro Paese, a differenza di altri, il titolo di studio è un vero e proprio certificato pubblico, con il potere di produrre effetti giuridici, rilasciato “in nome della legge” dall’autorità scolastica in nome di una potestà pubblica. Oggi però il dato eclatante è che il valore legale del titolo di studio conseguito con l’esame di stato non corrisponde al valore reale, cioè alla certificazione di conoscenze, competenze e abilità effettivamente possedute. Questo non facilita i giovani che devono spesso affrontare poi percorsi di riqualificazione per essere assunti o per proseguire gli studi universitari. 

Quindi?
Uno stato moderno dovrebbe, invece, solamente preoccuparsi di verificare le capacità di chi intende dedicarsi ad una professione, quali che siano le modalità attraverso le quali si sono acquisite tali capacità, restituendo il ruolo di protagonista al soggetto in formazione. Il programma riformatore che il governo Renzi afferma di voler attuare in ambito della formazione dei giovani troverebbe proprio in questa innovazione un elemento di qualità e di modernità.

Secondo lei quali effetti pratici produrrebbe tale abolizione?
L’abolizione del valore legale appare condizione, certo non sufficiente ma necessaria, per una reale qualità degli studi e per una valutazione e una certificazione legate a valori più obiettivi.