Frammento dopo frammento, le informazioni su come sarà l’esame di maturità 2015 stanno componendo il quadro. Mentre scriviamo arriva la notizia, diffusa dal Sole 24 Ore, che la Ragioneria generale dello stato ha fatto saltare dalla legge di stabilità la norma che imponeva una commissione fatta di soli membri interni (con annesso risparmio di 147 milioni). Si torna alla vecchia formula, dunque, interni più esterni, costo previsto 180 milioni? Vedremo se, in sede di conversione finale, sarà ripristinata l’idea delle commissioni di soli interni, a parte il presidente. Meglio attendere, dunque, le prossime puntate di una vicenda che sta assumendo i toni da telenovela, per questo continuo rimpallo del governo da una parte e degli organi di controllo dei provvedimenti, dall’altra.



Fino a ieri si diceva: fortunati coloro che non insegnano nelle classi quinte. Era stato riproposto lo schema (quello delle commissioni di soli interni) già visto dieci anni fa, ai tempi della Moratti. Uno schema che fu cancellato a furor di popolo, per gli evidenti esiti populistici: gli stessi docenti si ritrovano, cioè, a valutare i propri studenti due volte nel giro di un mese e mezzo. Come non detto.



Ma non sarebbe meglio cancellarli definitivamente, gli esami di maturità? Perché o sono costruiti con serietà, diventando vero “rito di passaggio” (ma seri non lo sono), oppure meglio toglierli definitivamente. Che senso ha una prova finale che prevede il 98 per cento (o più) di promossi? Un bluff, se diamo invece un’occhiata alle magre statistiche universitarie.

Anche perché, se ce ne siamo accorti, oggi non contano le prove in uscita, nei percorsi formativi, ma quelle in entrata ed in itinere, con la sola certificazione finale (ai fini della equipollenza dei titoli di studio). Pensiamo, ad esempio, al 40 per cento circa di percorsi universitari che oggi prevedono, appunto, le prove d’ingresso, cioè i test. Un vero aiuto, perché orientanti, con numero di ammessi gestibili poi dalle varie università.



Non ha insegnato niente, evidentemente, la storia degli ultimi decenni: se negli anni Settanta solo il 12 per cento dei nostri ragazzi arrivava ad una laurea, oggi siamo appena al 17. Solo cinque punti in più in 40 anni. Quale speranza, per le nuove generazioni, che si devono misurare, visto il contesto globale, con i propri coetanei di mezzo mondo? Che — tra l’altro — arrivano al diploma a 18 anni, cioè un anno prima dei nostri. I migliori, nel frattempo, stanno scegliendo la strada dell’estero, mentre tutti gli altri si devono arrabattare con l’arte di arrangiarsi. Perché non conta, altro punto critico, una laurea qualsiasi, a meno di limitarsi poi al mero adattamento in itinere. Ci sono infatti lauree e lauree.

Questo dovrebbe essere, per una “buona scuola”, il vero punto di partenza, il punto di Archimede: partire dai risultati dei processi formativi, per offrire ai ragazzi una reale speranza di futuro. Invece si continuano a privilegiare approcci di struttura, autoreferenti; il male della scuola italiana, dovuto al fatto che la scuola è governata da burocrati, non da politici capaci di farsi carico di quel punto archimedeo.

Intanto continua la tournée del governo e della sua “Buona Scuola”. Al di là delle vetrine fru-fru di queste settimane, espressioni di un certo qual populismo in salsa italiana, se entriamo nel merito, cioè se prestiamo attenzione ai processi di formazione dei ragazzi e di motivazione dei presidi e dei docenti, è ben poca cosa. Vedremo a proposito dell’organico funzionale, ma già da subito sappiamo che dovremo gestirlo, questo organico, sapendo che nel frattempo sono stati tagliati gli esoneri per i collaboratori del preside: difficile immaginare che, con 80 classi e 160 docenti, con in più una reggenza di un altro liceo sottodimensionato, io possa “governare”, se posso usare questo linguaggio crudo, tante complessità. Vedremo, dunque.

Una proposta in positivo? Mi viene in mente, per i nuovi esami di maturità, una opzione che sarebbe rivoluzionaria, ma in termini costruttivi, perché va al cuore di una delle contraddizioni della scuola di oggi: e se queste commissioni fossero composte non dai docenti del consiglio di classe, ma dai docenti della stessa scuola, esterni però al consiglio di classe? Forse, i dipartimenti comincerebbero davvero a funzionare, con programmazioni, non solo sulla carta, frutto del lavoro di condivisione e mediazione di tutti i docenti della stessa disciplina. 

Ma, si sa, le buone idee da noi difficilmente albergano in un sistema dominato da persone del tutto digiune di “scuola reale”. Resta l’altro corno: non si fanno riforme a costo zero. Soprattutto se pensiamo che da un lato alla scuola, per la sanatoria dei precari, viene stanziato un miliardo, e dall’altro, con tagli ben precisi, vengono tolti un miliardo e mezzo. Perché sanatoria assistenzialistica, quella dei precari? Perché, lo sappiamo tutti, una cosa è essere valutato sulla conoscenza della propria disciplina, altra sulla capacità di “saper insegnare”, di saper tenere una classe, di saper coinvolgere i propri ragazzi, di saper appassionare. Ma, anche questo i burocrati ignorano del tutto.

I presidi di Treviso hanno avuto l’ardire di chiedere, inutilmente, al nuovo direttore regionale del Veneto di avere la possibilità di valutare, anche di licenziare, con tutte le garanzie, ovviamente, i docenti di ruolo incapaci. Ma, si sa, nel nostro sistema rigido e ultraconservatore non poteva che trattarsi di una provocazione, di una boutade, al massimo un fuoco di paglia. Il motivo è semplice: dato il controllo burocratico (i ministri passano, i burocrati no), l’unica preoccupazione dell’apparato non è quella di rispondere alle questioni aperte, ma solamente quella di prevenire i possibili contenziosi. Un pensiero, dunque, in negativo. Mentre chi è in prima linea sa bene una cosa: i cambiamenti o si governano o su subiscono.