Cosa qualifica veramente una università? Cosa ne determina il valore per lo studente e per chi ci lavora, professori, ricercatori o personale amministrativo? Che esistano università migliori di altre è un dato di fatto, ma come si può pesare rigorosamente il reale valore di una università, collocandolo su una scala assoluta? E infine: quanto peso dare alle “classifiche” che annualmente più o meno dalla fine del XX secolo tentano un ranking globale?



Esistono almeno tre grandi classifiche mondiali. La prima è stata quella redatta dalla rivista Times Higer Education in collaborazione con QS (Quacquarelli Sysmonds è un’agenzia britannica fondata da Nunzio Quacquarelli, un inglese di lontana discendenza italiana): da essa sono nati due ranking globali, uno per ciascuno dei due soggetti che inizialmente collaboravano. Con essi ormai da qualche anno compare la classifica Arwu (Academic Ranking of World Universities), realizzata dalla Università Jiao Tong di Shanghai.



Analizzando le classifiche, si possono trovare nelle prime posizioni poche sorprese o molte conferme rispetto a quanto anche i non addetti possono pensare: per esempio si può scoprire che nelle prime dieci-dodici posizioni si trovano sempre — anche se in ordine diverso a seconda di chi fa la classifica — i nomi più famosi, come il Mit, Harvard, Oxford, Berkeley, il Caltech, Princeton, Stanford, Cambridge, la Columbia. 

Questo non dovrebbe impressionare più di tanto: chi non sapeva già che il Mit è una delle migliori università del mondo? E che dire di Stanford? Potremmo forse aspettarci di trovare per esempio l’università di Trondheim “davanti” a Princeton? Se pensiamo che in varia misura uno degli indicatori è proprio il prestigio internazionale presso le altre università nel mondo, facilmente riusciamo a comprendere come scalfire le prime dieci posizioni sia veramente difficile. La scelta degli indicatori dunque in qualche modo “orienta” il risultato. Lungi da un affronto sistematico e analitico del problema, impossibile in questa sede, il tema vero delle classifiche è infatti la scelta dei criteri. 



Da un rapido confronto dei meccanismi con cui questi ranking vengono stilati appare chiaro che l’interesse è fortemente orientato alla ricerca e all’esito post-laurea del percorso accademico (per esempio si contano i premi Nobel e le medaglie Fields che hanno frequentato l’università in esame), e si pone grande attenzione a elementi che potremmo dire “procedurali” del sistema formativo, quali ampiezza delle aule, infrastrutture fisiche e tecnologiche ecc. che sono tutte cose assolutamente importanti da tenere in conto in una valutazione complessiva di un ateneo. Soprattutto — viene da sospettare — per chi in questo ateneo deve investire: prestigio, qualità della ricerca, infrastrutture sono tutti elementi importanti perché un eventuale investitore privato, o un famoso ex-alunno decida di destinare fondi per questo o quell’università (e se è vero che Harvard investe un miliardo di dollari in “buildings” all’anno, è inevitabile pensare che non sia solo un sospetto a farci pensare male…).

Questo non significa che le prime università nei ranking siano da buttare — tutt’altro, e sarebbe stupido pensarlo —, ma che forse il modello competitivo basato su questi ranking non dice tutto del valore che uno studente può trovare in un ateneo. 

Un esempio interessante in questo senso può venire proprio dall’università italiana. I nostri giornali italiani non mancano di sottolineare come le nostre università si trovino ogni anno tristemente lontane dalle parti alte di queste classifiche. E’ possibile usare questi ranking e la valutazione in un’ottica di miglioramento del nostro sistema accademico? Chi imposta politiche che riguardano l’università non può non tenere conto di quello che esiste e di quali sono i punti di forza, oltre alle criticità, cercando con fatica di trovare i criteri di valutazione più adeguati, cose che per esempio in ranking così onnicomprensivi e vasti inevitabilmente rischiano di perdersi. In che modo infatti si possa mettere sullo stesso piano università che operano in contesti totalmente differenti per storia, economia, cultura, situazione politica resta un nodo assai problematico da approfondire, ed è fonte di discussione fra gli addetti a lavori.

Quello che non risulta chiaramente dai ranking (e il discorso dovrebbe essere trasferito a livello italiano, prendendo i primi ranking realizzati dell’Anvur) è il “valore medio” del prodotto dell’università: il laureato. Noi, da bravi provinciali italiani, possiamo continuare a pensare che altri sistemi accademici siano per noi inarrivabili, come per esempio quello anglosassone. Ma ci sono campi — per esempio le scienze naturali: fisica, matematica, le biotecnologie — nei quali i nostri laureati riescono molto bene a competere con tutti gli altri studenti, anche nel sistema anglosassone. Quindi gli italiani sembrano “giocarsela” alla pari con i più quotati colleghi inglesi, americani, ecc. 

Aprire gli occhi su questo aspetto, e cercare di valorizzarlo, cioè di trovare un modo perché emerga come punto qualificante in una valutazione competitiva con altre università, potrebbe essere una strada utile per fare crescere il sistema universitario italiano, magari favorendo sempre più la messa in rete di punti di eccellenza del nostro territorio. E — in ottica di un investimento sul positivo — difendere e sviluppare le best-practices didattico-formative già presenti nelle nostra università, per non lasciarle morire, condannando con esse lo sviluppo sul lungo periodo dell’università. Altrimenti dovremmo accettare in modo illogico un paradosso: quello di avere in alcuni settori università scadenti (secondo i ranking) che producono laureati eccellenti e in grado di competere con chiunque nel mondo.