La consultazione pubblica sulla scuola è cominciata, e si fanno i conti su quanto debba andare alla scuola nella prossima legge di stabilità. Un miliardo, dice il ministro Giannini. Basterà a coprire la maxi assunzione di docenti voluta dal governo? Ma c’è un’altra contraddizione plateale, ed è quella tra l’assunzione ope legis di 150mila persone e i criteri di eccellenza ai quali si dovrebbe attenere la selezione del personale docente nella “Buona Scuola” pensata dal governo Renzi. Ieri la Giannini ha tentato di rispondere a questa critica in una intervista sul Sole 24 Ore, in verità senza molto successo. “Noi assumiamo tutti gli insegnanti di cui abbiamo bisogno per l’autonomia scolastica”. Ma che nel documento Renzi l’autonomia — quella vera — manchi del tutto (non a parole, ma nei fatti) lo spiega Andrea Ichino, economista ed esperto di istruzione.



Professore, sul Sole di ieri il ministro Giannini ha difeso l’eccellenza dei nuovi assunti. Un punto assai controverso, non trova?
Sicuramente non c’era bisogno di un’assunzione così massiccia senza alcun controllo della qualità di chi entra stabilmente nella scuola. Ciò non vuol dire che non sia una buona idea assumere nuovi professori purché bravi, e ci sono senz’altro, tra questi 150mila, ottimi docenti che stanno facendo bene il loro lavoro. Il problema sta nel modo in cui l’operazione è stata fatta e nell’entità del numero.



Si spieghi.
A fronte di 50mila posti disponibili in organico vengono assunte 150mila persone e il governo deve spiegarci perché. Io avrei avuto dubbi anche sulla necessità di coprire 50mila posti, perché i dati Ocse ci dicono che in Italia il numero di professori per studente è in linea con i dati internazionali e certamente non inferiore. Di docenti ce n’erano già tanti e — purtroppo — pagati poco.

Molti hanno rilevato che su questo punto il documento Renzi è, per così dire, sbilanciato…
Senza girarci intorno: le 150mila assunzioni sono un’esigenza occupazionale, non di politica scolastica.



Ma in Italia i docenti sono tanti o sono pochi? Ognuno su questo dice la sua.
L’opinione comune è influenzata dal fatto che, non essendo i docenti, per ragioni di natura sindacale, distribuiti sul territorio in funzione delle esigenze, ci sono zone del paese con moltissimi professori o categorie di professori in sovrannumero, mentre altre zone sono deficitarie. E a fare rumore sono le classi pollaio, che però sono pochissime. I dati aggregati dell’Ocse, invece, parlano chiaro: se si prende il numero totale di insegnanti e lo si divide per il numero totale di studenti, il numero di insegnanti per studente è in linea con i dati europei.

Un altro nodo che sembra destinato a non trovare risposta è quello delle risorse. Spendiamo tanto o spendiamo poco?

Spendiamo poco in rapporto al Pil, ma spendiamo tanto in proporzione al numero degli studenti, certo non meno di altri Paesi facendo riferimento a questo secondo indicatore.

Ma perché il secondo indicatore dovrebbe essere più rilevante?
Perché è quello che meglio misura le risorse che il Paese destina ad ogni studente. Se ipoteticamente in Italia non ci fossero bambini, o ce ne fossero pochissimi, avrebbe senso che gran parte del Pil fosse devoluta alla scuola, quando voci di bilancio come sanità (per i molti anziani) e welfare chiedono più soldi? Ovviamente no. E infatti: il “relativamente poco” che spendiamo per gli studenti è comunque tanto in relazione al loro numero, in un Paese a bassa natalità come il nostro.

Se le risorse per studente sono tante, perché non se ne vedono gli effetti?
Perché sebbene per ogni studente ci sia una spesa non inferiore a quella di altri paesi, i servizi effettivi che questo studente riceve non sono della qualità di quelli di altri paesi.

E perché i soldi che diamo alla scuola sono spesi male?
Perché le scuole non hanno autonomia. Una scuola veramente buona deve basarsi sull’autonomia decisionale, soprattutto per quel che riguarda la selezione e gestione delle risorse umane. Ma a questa autonomia deve accompagnarsi una valutazione che generi una struttura corretta di incentivi per chi dirige le scuole e chi in esse opera. Si può discutere su come questa valutazione debba essere fatta, ma il motivo per cui spendiamo male è che gestire dal centro un’azienda con un milione di dipendenti oggigiorno è una follia. E’ un problema organizzativo.

Sotto questo punto di vista, quello dell’autonomia, cosa pensa del piano Renzi?
E’ ambiguo, perché da un lato promette a chiare lettere — “ogni scuola dovrà avere la possibilità di schierare la squadra con cui giocare la partita dell’istruzione”:  è davvero una definizione perfetta di autonomia — ma poi non mantiene, perché il Miur rimane l’unico a decidere (male) i giocatori. Se quello che dice il documento fosse realizzato fino in fondo sarebbe un’innovazione importantissima per la scuola italiana, e andrebbe nel senso delle proposte che ho fatto con Guido Tabellini in “Liberiamo la scuola”: autonomia nel disegno dell’offerta formativa e nella gestione delle risorse umane, selezionate e retribuite in modo autonomo e indipendente dallo stato.

Prima ha parlato di inefficienza delle spesa. Può documentarlo?
La prova è sotto gli occhi di tutti: innanzitutto il reclutamento degli insegnanti e dei presidi, che sono la voce di costo più rilevante e al tempo stesso l’ingrediente più importante per una scuola che sia davvero “buona”. Non c’è un concorso che funzioni e che finisca in tempi ragionevoli, non c’è un minimo di possibilità per una scuola di pianificare e programmare l’offerta formativa o di assumere chi davvero può aiutare a migliorare questa offerta. Nella situazione attuale i tempi di decisione su chi deve andare dove sono infiniti. 

Il ministero poi non è in grado di venire incontro rapidamente ed efficacemente alle esigenze di un mercato del lavoro che cambia in continuazione. Le scuole, che hanno perfettamente il polso di quanto serve al territorio, sono bloccate da quanto viene deciso o non deciso a Roma.

Flessibilità anche nel curricolo, quindi. Ma fino a che punto?
Se le scuole fossero autonome e libere di modificare il curricolo secondo le esigenze del territorio, avremmo una migliore transizione scuola-lavoro. Lo stato non dovrebbe decidere da Roma tutto quello che deve insegnare una scuola, ma solo un core di materie obbligatorie per tutti; il resto dovrebbe poter essere deciso localmente dalle singole scuole.

Da tempo le scuole paritarie reclamano autonomia, ma per loro nel documento non c’è spazio. Lei che ne pensa?
In un sistema come quello che io propongo la battaglia per la parità è superata, perché in esso non esiste più la scuola paritaria, esiste la scuola autonoma. Quando il liceo Alighieri di una qualunque città d’Italia diventasse una scuola autonoma, potrebbe essere gestito e amministrato da chiunque si offra e venga scelto dal bacino di utenza della scuola, l’Arci esattamente come la diocesi. Una scuola autonoma deve poter essere gestita da chi si dimostra in grado di farla funzionare bene.

Quindi in un’ottica di autonomia lei sarebbe favorevole non al concorso statale ma all’assunzione diretta dei docenti da parte delle singole scuole.
Assolutamente sì: ogni scuola dovrebbe essere libera di assumere chi vuole, alle condizioni di mercato che vuole, sapendo però che se assume cattivo personale potrebbe anche dover chiudere perché non funziona o perché la sua valutazione è negativa.

Come andrebbero finanziate le scuole autonome?
Lo stato stabilisca qual è la dote che ogni studente porta con sé nella scuola prescelta: se una scuola riesce ad attrarre 100 studenti, il suo finanziamento sarà 100 volte la dote di ogni studente.

Da anni si parla di riforma, e anche Renzi ha presentato il suo programma. Di fronte a un sistema così ingessato qual è l’approccio giusto? Rifare tutto? O agire su più punti in modo gradualista?
La realtà è che una riforma vera della scuola non c’è mai stata; ci sono stati piccoli interventi di dettaglio, ma l’impianto della scuola italiana è ancora quello di Gentile. Questo di Renzi in effetti è qualcosa di diverso rispetto a quanto si è visto nei governi precedenti: i contenuti sono ovviamente discutibili, ma non ricordo in 30 anni un documento analogo così ben fatto, articolato, ambizioso, e questo è positivo. Credo però che la scuola non abbia bisogno di interventi di dettaglio, ma di un ridisegno complessivo che guardi lontano; le toppe sul vestito bucato non hanno futuro.

Un altro problema della nostra scuola è che, ammesso che si riesca a cambiarla in meglio, c’è il rischio che il governo che viene dopo smonti tutto.

Proprio per questo l’autonomia è l’unico modo per ridisegnare la scuola dandole stabilità. L’idea che i programmi di studio debbano essere decisi integralmente dal ministero è di una arretratezza pazzesca, è destinato a far sì che ogni ministro cambi quello che aveva deciso chi c’era prima di lui. Esempio: un difetto enorme del documento di Renzi è la totale dimenticanza delle materie scientifiche, ma la soluzione non sta nell’invertire la rotta rispetto a quanto propone il governo, privilegiando, ad esempio, matematica chimica e fisica per tutti a discapito del resto. La soluzione sta nel concedere alle scuole libertà di decidere la loro offerta formativa, e saranno gli studenti e le famiglie a decidere tra le diverse offerte.

Renzi è l’uomo solo al comando: ha la forza politica che serve per cambiare la scuola?
La forza ce l’avrebbe, non mi è chiaro se voglia farlo davvero. La sua ricetta, per ora, rimane ambigua, soprattutto nell’ambito della scuola.

(Federico Ferraù)