Come prevedibile e — con se pur immodesta sincerità intellettuale —come previsto, la “bomba Clil” sta per detonare. Perlomeno è recentemente scoppiata nel mondo della scuola, anche se con evidente ritardo rispetto alla nota ministeriale del 25 luglio 2014, da (quasi) tutti commentata solo ora.
I punti problematici di questi commenti sono sostanzialmente tre: 1. quella che “fa notizia” è l’abbassamento del livello di competenza linguistica dei docenti impegnati nella metodologia Clil, l’insegnamento di una disciplina in una lingua straniera, da C1 a B1, purché il docente stia frequentando un corso di formazione linguistica. Non si dà però notizia di quanti siano i corsi di formazione linguistica conclusi o in atto a livello nazionale, cosa che evidentemente richiederebbe un interesse non estemporaneo alla vicenda tutta del Clil. 2. Seguono poi, come nota dolens, la mancata attuazione di un (almeno! sono stati formati a malapena 1000 docenti) secondo ciclo di formazione metodologica presso le università, una situazione assurda per la quale non è scorretto parlare di fallimento di un progetto di formazione, e 3. la mancanza di un riconoscimento di merito per i docenti impegnati nella metodologia Clil, se non in forma pecuniaria, almeno come punteggio aggiuntivo in graduatoria di istituto.
Ancora nessuna menzione dell’esame di Stato, pur contenuto nella nota di cui sopra, ma anche in quel caso la miscela è esplosiva: membri esterni confermati, anche se in maniera non ancora né chiara né definitiva; e poi: che cosa si farà del Clil in terza prova e nel colloquio, come già sottolineato su queste pagine? Niente nemmeno in merito alle misure “compensative” previste sempre dalla nota (cosa si fa se non si ha un docente Clil formato?), nessuna informazione sul rapporto di monitoraggio relativo ai licei linguistici (a proposito dei quali qualche indicazione pur la diede, sullo stato dell’arte del Clil e sulle problematiche aperte), ma anche nessuna anamnesi del malato che, oltre a segnalare i sintomi più evidenti, li componga in un quadro diagnostico che porti ad una ipotesi di cura. Forse che, più che per amore di chiarezza dell’informazione tempestiva e critica, si stia creando ora il caso Clil ad uso esclusivo della stampa? Con, immagino, l’inevitabile irritazione o preoccupazione di genitori di un qualsiasi liceo (ad esclusione, forse, dei linguistici che sono al terzo anno di Clil) che si immaginano il figlio (o figlia) in classe quinta alle prese con l’insegnamento di una disciplina finora vista solo nella lingua madre, ed ora insegnata da un docente dal profilo professionale molto chiaro sulla carta ma molto incerto nella realtà?
Come al solito, occorrerà sperare di essere fortunati, e che al proprio figlio capiti un Cct, un committed competent teacher, un docente competente e motivato (anche se non certificato)? Oppure ci si dovrà accontentare di un committed dirigente scolastico che richiami i suoi docenti all’obbligo ordinamentale, come sta di fatto accadendo, e nomini sul campo la vittima sacrificale, e magari anche due, nell’accoppiata del docente di disciplina (non competente sulla lingua) e del docente di lingua (non competente sulla disciplina), e costretti a formarsi reciprocamente, riflettendo sulla propria azione didattica in modo tale da saper trasferire il proprio know-how al collega in tempi brevissimi? Da questo punto di vista la situazione migliore la avranno probabilmente, in questa fase transitoria, gli studenti degli istituti tecnici, perché la programmazione per competenze e lo studio delle micro lingue (l’inglese tecnico, nel linguaggio di tutti) ci sono già. Il nervo scoperto della scuola a proposito del Clil sono i licei.
Alternative alla débacle? Primo, rivedere l’impianto stesso della formazione del docente in servizio, in modo non demagogico. Non basta dire che la formazione erogata come “didattichese” (una serie di procedure avulse dalla classe, disciplina o contingenza storica) è una astrazione che porta solo al posto fisso (l’immissione in ruolo o il “patentino”Clil”), e non alla competenza, che pur si esige che il docente formi nei suoi stessi studenti. Per il Clil occorre abolire la distinzione fra formazione linguistica (corso di lingua gestito dalle scuole capofila, inevitabilmente lungo ed impegnativo) e metodologica (gestito dalle università, anche questo lungo ed impegnativo), perché il tutto avviene senza che fra i due tronconi della formazione vi sia alcuna sinergia, una situazione doppiamente paradossale tenendo conto che l’unità fra lingua e contenuto è il Clil medesimo. Abbassare il livello di competenza linguistica in entrata del docente Clil è sopportabile (ma non sotto il livello B2 per le abilità recettive e B1 per le abilità produttive, una distinzione del tutto ignorata dalla legge) solo e soltanto se viene offerto un percorso di formazione unitario che contemporaneamente migliori le competenze linguistiche e gestionali specifiche del sapere didattico del singolo docente.
Le vere croci del Clil? La prima, averlo previsto solo per la classe terminale dei licei (a parte i linguistici) e quindi senza quella gradualità che è utile al docente che, di suo, diciamocelo, spesso si occupa di un’azione didattica solo quando è imminente, e inevitabilmente non riflette su di essa, e che sarebbe stata utile anche agli studenti. La seconda, aver pensato ad un percorso di formazione inadeguato in origine, e poi persino disperso nei rivoli dei ritardi e delle manchevolezze della gestione del pachiderma scuola.
La terza, aver — come sempre avviene per la formazione dei docenti in servizio — relegato l’azione di altri formatori pur riconosciuti dal Miur (vale a dire le azioni formative, sporadiche o continuative, di associazioni professionali e anche di qualche altro ente, quali il British Council o l’Università Ca’ Foscari, o tutte le iniziative delle varie reti Clil) al livello della semplice “sensibilizzazione”. Senza verificare se, per caso, la vera risorsa mancante, i formatori dei formatori, non fosse nascosta proprio lì dentro.