Il Dott. Ing. (nome di fantasia) Alessandro (altro nome di fantasia) ha scelto il suicidio. Studiava ingegneria, alla Sapienza di Roma, era prossimo alla laurea, sempre più vicino. Ma non era vero. Niente era vero.

Partiamo da lontano. In molti hanno letto qualcosa su Steve Jobs. Qualcuno un’intera biografia, stilata in vita o postuma, ma in pochi hanno fatto caso al conflitto che ha stroncato sul nascere la sua carriera universitaria. Stroncatura che Jobs ha riscattato, eccome, con il suo famoso discorso agli studenti (e ai professori) della Stanford University al conferimento della laurea ad honorem, proprio a lui che all’appuntamento con la laurea era risultato, vergognosamente, assente.



Della vergogna che il giovane Steve portò con sé ai corsi di bella calligrafia, che furono poi alla base dell’innovativa grafica di Apple, e che (forse) fu scacciata dai suoi primi successi imprenditoriali, non è rimasta traccia apparente. Si sa però che l’apparenza inganna. Non per quanto riguarda i nostri sensi i quali il loro mestiere lo fanno, ma per quanto riguarda ciò che si muove nell’animo del nostro prossimo, i più prossimi compresi. Il conflitto di Jobs non riguardava il delta tra le sue capacità e le sue ambizioni, molto più prosaicamente riguardava il delta tra le sue ambizioni e il conto in banca dei sui genitori (aggiungere adottivi è sì una verità, ma pleonastica). Qualche anno in quella università e tutti i loro risparmi sarebbero stati spazzati via completamente. Questo peso neppure il futuro gigante Jobs è riuscito a sop-portarlo. Nella valanga di pagine a lui dedicate nessuno ha poi riferito se i genitori di Steve ne avessero ricavato un sollievo, oppure un cruccio, dalla notizia di quei soldi salvati, che forse sarebbero stati ben felici di spendere.



Grazie a Steve Jobs, ci siamo fatti un’idea di quanto pesi l’invisibile, l’insieme difficilmente calcolabile delle attese, delle aspettative, che altri possono aver avuto su di noi. Ma anche, e questo rende il filo del discorso meno lineare, meno razionale e dunque più inquietante, anche l’assenza di attese, di aspettative. Di modo che se gli altri si aspettano qualcosa da noi potrebbe essere un problema, pur sapendo che anche il suo contrario potrebbe non essere la soluzione.

Ad ogni modo non siamo mai soli, tutta la nostra vita individuale si gioca nelle relazioni, con gli altri reali, idealizzati, svalutati, e pure con i loro fantasmi, con i pensieri degli altri che forgiamo dentro di noi e pure con i pensieri che noi stessi forgiamo a proposito di ciò che vorremmo divenisse il nostro io. Paradiso o inferno o più spesso purgatorio che siano, gli altri sono incessantemente presenti nelle nostre vite individuali. 



Questo fece dire a Freud che “La psicoanalisi ci ha insegnato infatti che gli atteggiamenti affettivi verso il nostro prossimo (….) vengono acquisiti in un’epoca inaspettatamente remota. Già nei primi sei anni dell’infanzia (…..). Ma fra le imagines che si sono formate in un’infanzia di cui di solito si è perduto il ricordo, nessuna è più importante, per il giovane o per l’uomo adulto, di quella del proprio padre”.

Dal paragone con questo universo di rapporti reali e idealizzati, esterni e interiorizzati, non sempre usciamo vincenti, più spesso pareggiamo, non poche volte perdiamo e pur di evitare l’ombra di vergogna, che di conseguenza ci insegue, siamo disposti a ogni sorta di compromesso, onorevole o meno. Compreso creare di noi stessi un’immagine, radicalmente lontana dal vero, da proiettare sullo specchio degli altri, così che, almeno un poco, la possano di nuovo riflettere su di noi. Gioco di immagini fasulle e consolanti ad un tempo, col quale un po’ tutti abbiamo a che fare, ma che per alcuni diviene l’unica via d’uscita dallo smacco insopportabile del non riuscire a soddisfare le aspettative, vere o presunte, dei nostri altri più prossimi. Via d’uscita diabolica, nel senso faustiano del vendere l’anima al demonio, il quale, si sa, passa sempre a riscuotere il dovuto.

Chi inizia questo gioco di piccole bugie, poi di menzogne, fino a forgiarsi una falsa coscienza, non è solo “preso a morsi dalla stessa maschera che aveva creato”, come hanno osservato le brave giornaliste di Repubblica (12 novembre) nella cronaca sul suicidio di Alessandro. Un giovane inghiottito dalla voragine venutosi a creare tra “lo splendido ideale (dell’io)”, che lo ha preteso ingegnere, e la “squallida realtà quotidiana” degli esami falliti o neppure mai tentati. Come non era più reale il suo io, così non lo erano più neppure i suoi altri; per cui Alessandro è morto di solitudine, prim’ancora che a causa del volo dal quarto piano. La maschera che lo nascondeva agli altri, ha nascosto gli altri a lui.

Chi è in grado di portare avanti per anni un gioco di finzioni così terribilmente complesso forse non sa di disporre di abilità stra-ordinarie, di doti non comuni, di una maestria creativa degna dei grandi romanzieri e dei migliori registi. Un talento davvero personale che attende solo di essere riconosciuto nell’appuntamento con altro reale al quale poter dire: “non ce la faccio”, almeno un istante prima di condannarsi da solo. Togliendo la maschera potrà sembrare di morire (di vergogna), ma il lutto per la perdita della maschera non è reale. Il lutto per perdita dell’io invece lo è.