Leggo, da un articolo del 18 novembre del Corriere del Veneto, di una studentessa di un istituto superiore di Adria che, durante un’assemblea, ha preso la parola, esponendo la sua prospettiva nel merito del problema dell’accoglienza degli immigrati in Italia, con frasi che, stando all’articolo, andavano da “rubano il lavoro” a “affamano gli italiani”.
La studentessa è stata punita con una nota, comminata, ha dichiarato il dirigente, per il comportamento della ragazza, che avrebbe preso la parola senza rispettare chi stava intervenendo in quel momento, e si sarebbe poi allontanata dall’assemblea senza autorizzazione.
Il fatto è arrivato fino alle orecchie del vicepresidente del Senato Calderoli, il quale, non prestando fede alle parole del dirigente, ha accusato “il razzismo al contrario” che questa vicenda denoterebbe, tacciando le istituzioni scolastiche di farsi latrici del “pensiero unico della sinistra buonista”.
La vicenda insiste a mio avviso su un aspetto fondante, e complesso, del “fare scuola”.
Fondante perché, a conti fatti, nelle aule i nostri ragazzi fanno la prima esperienza extrafamiliare di convivenza democratica, di esercizio di diritti e doveri che strutturano una società: si sente molto spesso parlare ai o dei nostri studenti come cittadini del domani. La cosa mi urta sempre, come quando, alle superiori, sento docenti rivolgersi ai propri ragazzini. Non è difficile comprendere che dare ad un adolescente del cittadino del domani lo esautora dal diritto/dovere di essere un cittadino dell’oggi.
Complesso, perché, in primo luogo, gli studenti arrivano nelle aule con un retroterra familiare di cui si fanno latori: i genitori costituiscono i primi modelli di figure adulte cui i figli guardano, e di conseguenza è normale che spesso ciò che si sente a casa venga poi riportato sic et simpliciter in aula. Da qui deriva il fatto che talvolta, quando uno studente assume un comportamento particolare, o esterna affermazioni desuete, o politicamente scorrette, il docente, prima di intervenire con una semplice e categorica censura, debba valutare tra sé e sé cosa questa censura possa comportare, se c’è, cioè, il rischio che, in essa, il ragazzo non legga la condanna del suo comportamento, ma la condanna della sua famiglia.
In secondo luogo, va sempre ricordato che la scuola e la famiglia non sono più, ormai da tempo, le uniche agenzie educative alle cui influenze i nostri ragazzi sono esposti. Che modelli di dialettica offrono i programmi televisivi che un adolescente come la studentessa di Adria può seguire? I salotti domenicali, o gli omogeneizzati tuttologici che facilitano la digestione postprandiale, che esempi offrono di condivisione di regole, di rispetto dell’altro, di esposizione pacata delle proprie idee?
A fronte di queste complessità, incidenti come quello capitato nell’istituto di Adria, se non normali, sono almeno prevedibili, nella quotidianità di una scuola.
Doveroso, a incidente avvenuto, il provvedimento disciplinare, secondo la motivazione del dirigente: in ogni comunità le regole vanno condivise, e il loro rispetto va tutelato, specie quando queste riguardano i fondamentali delle corrette relazioni. Vero è anche, però, che il rispetto delle regole va insegnato, mediato e co-costruito: altrimenti la scuola sarà ancora quella dei cittadini del domani, parcheggiati per qualche anno, in attesa passiva.
Torno, quindi, a difendere la necessità, nelle scuole, di alcune buone pratiche (formazione alla rappresentanza di classe e di istituto, all’assemblea, alla gestione di gruppi etc.) che troppo spesso vengono tralasciate, o semplicemente affidate alla buona volontà degli studenti.
Più in generale, sarebbe opportuno che, prima di assumere certi toni settari e certi atteggiamenti di “non comunicazione” in assemblea, i nostri studenti avessero già potuto esercitare, nello spazio più raccolto dell’aula, e sotto la tutela e la guida dell’insegnante, la responsabilità della libertà di parola, con i rischi ad essa connessi.
Se uno studente, prima di esternare in modo scorretto le sue opinioni su immigrati, o pena di morte, o unioni tra persone dello stesso sesso, ha avuto modo di essere accompagnato da un esperto, quale può essere il docente, a riconoscere gli errori insiti in un’affermazione generica (ad esempio: gli immigrati rubano), o iperbolica (tutti i politici sono ladri), o violenta (sei un ignorante, io ho ragione e tu hai torto), forse potrà arrivare ad un confronto libero e aperto già con i fondamentali di una corretta comunicazione dialettica e democratica.
Se la televisione è portatrice di pessimi modelli comunicativi, e se in famiglia non si parla (o non ci sono i tempi o i mezzi per una vera pedagogia della comunicazione), allora va da sé che sarà la scuola a doversi far carico, nella chiave dell’educazione alla cittadinanza e alle competenze sociali e civiche, di questa necessaria e vitale formazione.
Se, però, il paradigma dominante è ancora quello della lezione frontale, in cui il bravo studente è lo studente che sta zitto, o che al massimo interviene se interrogato, e solo per ripetere quanto ha detto il docente o quanto è scritto sul libro, non stupiamoci se, alla prima occasione di esercizio autonomo della libertà di parola e di pensiero, i nostri studenti possano dimostrarsi cattivi fruitori di tale diritto fondamentale!
La democrazia, il rispetto del prossimo, la rinuncia consapevole ad una porzione della propria sovranità per un maggiore bene comune, non sono principi o istinti innati nell’uomo. Come, sul fronte opposto, non lo sono la capacità di esprimere le proprie opinioni, di contraddire in modo rispettoso le opinioni altrui, di argomentare una scelta, un credo o un’idea… Mi sentirei realizzato se sapessi che un mio studente ha sviluppato, anche grazie al mio aiuto, una sola di queste competenze! E se, per sollecitarne la maturazione, a fine anno sarò in ritardo sul programma, ebbene, vorrà dire che da quell’aula usciranno cittadini un po’ più capaci, ma che non conoscono a fondo le orazioni di Cicerone… A conti fatti, poteva andare peggio!