Pubblichiamo il testo dell’intervento tenuto dal prof. Costantino Esposito in occasione dell’ultima Convention di Diesse (18 ottobre 2014) sul tema “Vivere nella scuola: una sfida alla libertà”. Il testo conserva la forma dell’esposizione orale da parte dell’autore.

Innanzitutto molte grazie dell’invito. Ero stato qui qualche anno fa per un incontro della Bottega di filosofia, che poi ho seguito nello sviluppo di quell’evento inaspettato e sorprendente che sono state le Romanae disputationes di filosofia, che continuano anche quest’anno con una seconda edizione. In qualche modo, quindi, mi sento parte del vostro percorso e perciò non parlo dal di fuori ma, per quello che posso, in punta di piedi, dall’interno. 



Il titolo che è stato dato a quest’incontro — Vivere nella scuola: una sfida alla libertà — penso non vada inteso solo in riferimento al contesto oggettivo in cui ogni insegnante deve rischiare ogni giorno la sua competenza e applicare la sua professionalità; e nemmeno che esso possa esaurirsi in una disposizione psicologica o in un progetto ideologico da parte di chi insegna. A mio modo di vedere questo titolo riguarda, in realtà, niente di meno che la natura, la struttura e lo scopo di quell’ambiente sui generis che è la scuola, e quindi riguarda il tratto caratteristico di quell’attore sui generis sulla scena del mondo che è l’insegnante. 



Se penso alla mia esperienza in questi anni — sono un professore di storia della filosofia in università — mi verrebbe da dire che vivere in un ambiente educativo significa esercitare un rapporto con i ragazzi all’interno del quale si rende possibile una scoperta. Non c’è rapporto vero senza scoperta; e non c’è scoperta vera senza rapporto. Non possiamo dividere questi due fenomeni: se togliamo uno dei due, entrambi rischiano di non avere più senso, e non capiamo cosa significhi essere protagonista in un ambiente educativo. È proprio quello che emergeva dai bellissimi interventi che abbiamo ascoltato questa mattina, e che avevano spesso il tono di una testimonianza. Ma se facciamo attenzione, qual è il senso proprio di una testimonianza, se non che in essa si rende presente un pensiero? Un pensiero — quello che emerge dalla testimonianza — che non è astratto dalla vita o slegato dall’esperienza, ma rappresenta una via per addentrarsi nella vita, una strada per capire l’esperienza: è un pensiero, cioè, che indica propriamente un metodo.



Difatti, se una testimonianza si limitasse al contraccolpo emotivo, essa sarebbe senza pensiero, e quindi senza metodo; mentre quello che noi scopriamo con il coinvolgimento emotivo risulta davvero interessante quando porta a un incremento del pensiero e ad una chiarificazione della strada lungo la quale possiamo fare esperienza del reale. Dalla testimonianza degli interventi di questa mattina da parte delle diverse “Botteghe dell’insegnare” emergeva dunque proprio questa indicazione di metodo: vivere un rapporto — un rapporto con se stessi, anzitutto, e con gli alunni, con i colleghi, con il mondo — all’interno del quale si rende possibile una scoperta.

Ma la scoperta ha una sua logica propria, che è la logica della domanda. I questi anni mi si è imposta sempre di più questa evidenza: che la conoscenza procede se permette di incrementare le nostre domande e la scuola è realmente un luogo in cui è possibile vivere solo perché è un luogo in cui si possono porre delle domande, o meglio ancora, un luogo in cui si può imparare a domandare.

Si parla spesso, come di un obiettivo formativo essenziale, dell’acquisizione di una pratica corretta di problem solving. Tuttavia la scuola non deve limitarsi a insegnare come risolvere dei problemi, proprio perché il primo modo per risolvere i problemi è imparare a porre le domande. Infatti molte volte noi non risolviamo i problemi perché non li vediamo — semplicemente non li vediamo —, cioè non siamo educati a domandare. Questo significa che, andando al nocciolo dell’esperienza, la prima questione per noi insegnanti non è appena quella di verificare se e quanto ciò che trasmettiamo o comunichiamo viene appreso dai nostri studenti (cosa che naturalmente deve starci molto a cuore), ma che cosa noi stessi, come insegnanti, impariamo insegnando. Vi sarà certamente capitata questa esperienza: che uno può anche insegnare da anni lo stesso programma, ma proponendolo ancora una volta è come se lo scoprisse, cioè si accorge che è una cosa che “gli piace”, nel senso che ridesta il suo interesse. Allora questo è decisivo: che cosa io stesso imparo insegnando, che poi è anche l’unico modo per far imparare qualcun altro. Io posso insegnare veramente qualcosa mostrando come io la imparo. Posso comunicarla, quella cosa, non come uno che già la possiede — anche se naturalmente in qualche modo “ce l’ho già” rispetto all’alunno che non la sa e che io devo introdurre alla conoscenza —, ma mostrando come io sono al lavoro con essa, cioè come io la sto imparando.

Per questo, se vivere nella scuola è esercitare un rapporto con i ragazzi all’interno del quale si rende possibile una scoperta, e se quella scoperta ha una sua logica propria che è quella della domanda, allora è possibile che noi con i nostri alunni scopriamo quello che già sappiamo. Non vi sembri una contraddizione: è possibile mai scoprire quello che è addirittura già codificato nel programma ministeriale o nel manuale? Secondo me sì, anzi è l’unico modo per impararlo! Ma questo non per una retorica pedagogistica, ma perché — e questo è il secondo passo che vorrei fare con voi — questa logica del domandare o dell’imparare insegnando è, in qualche modo, un’esemplificazione straordinaria della struttura stessa della nostra esperienza del reale, quindi fa parte della struttura epistemologica del nostro insegnamento, in quanto ha a che fare con la struttura ontologica della nostra esperienza

In diversi casi, quando noi usiamo la parola “realtà”, intendiamo qualcosa che è semplicemente là fuori, fuori di noi. In questo siamo veramente tutti eredi di Cartesio: la realtà è quello che sta all’esterno o al di là della nostra mente, e il problema diventa come riuscire mai ad entrare in rapporto con essa, se sia mai possibile gettare un ponte che colmi la distanza abissale tra la nostra coscienza e il mondo, tra l’io e le cose. E cioè, come possiamo riuscire a catturare questa cosa estranea che è il reale, come misurarla, imbrigliarla, com-prenderla negli schemi della nostra mente. Invece la parola “realtà” indica di per sé un rapporto: la realtà è rapporto, non appena nel senso di qualcosa di alieno a me, e con cui devo entrare in rapporto, ma come qualcosa che di per sé è già rapporto

Voglio dire: non c’è realtà senza il fatto che, in essa e con essa, sia già in gioco “io”. Il che non significa — mi pare evidente — che io possa ridurre a me la presenza del reale, nella sua alterità e differenza rispetto ai miei schemi, ma che la realtà “è” in quanto mi si dà, o — usando la parola che emergeva dalla Bottega di matematica — “accade”. Cosa vuol dire che la realtà accade? Non semplicemente che essa c’è come un dato irrelato, contro cui il nostro io va a “sbattere” (come pensavano i positivisti), ma che essa si manifesta nella sua verità perché in qualche modo mi tocca, chiede di me, fa nascere la mia domanda. 

La struttura elementare del domandare non è mai un esercizio astratto della nostra ragione, perché la domanda non è mai il punto zero, è sempre il punto zero virgola uno: infatti ci deve succedere qualcosa per poter domandare, altrimenti non ci verrebbe neanche in mente. Il nostro domandare è già una risposta al fatto che siamo toccati, che c’è un’urgenza della realtà rispetto al nostro io. 

Normalmente pensiamo il nostro io come una sfera separata, come la nostra “capsula interiore”, e la realtà come ciò che sta al di fuori di essa: invece la realtà si manifesta perché è già in qualche modo accolta nello spazio di apertura della mia coscienza, della mia mente, della mia attenzione. Anche senza volerci impegnare in una tesi filosofica sul soggetto cosciente, e restando al solo livello percettivo o neuro-cognitivo, possiamo dire che l’io è uno spazio di accoglienza del dato.

La verità, cioè il significato ultimo delle cose, non è una cosa che ci inventiamo e appiccichiamo alla realtà, ma è il modo che la realtà ha di farsi scoprire da noi: insomma è l’«adaequatio intellectus et rei», come direbbe Tommaso d’Aquino, cioè un certo rapporto tra il dato e la mia apertura a esso. La mia apertura non crea il dato, la mia intelligenza non è creatrice del dato, perché il dato appunto mi è dato, e implica necessariamente una passività da parte mia. Ma l’attività della mia intelligenza è talmente rilevante, che anche un atteggiamento così minimale e fragile come il mio fare attenzione («fate attenzione!», «prestate attenzione!», «un po’ di attenzione!», diciamo ai nostri studenti), cioè il decidere di dare spazio a qualcosa, è un’attività spirituale enorme. Infatti è quel punto in cui in qualche modo tu permetti alla realtà di raggiungerti e le dici: «Sì, ci sto. Mi stavi dicendo? Che cosa mi vuoi dire?». In quel momento nasce nell’esperienza il problema della verità: non qualcosa da aggiungere alla realtà ideologicamente (nel senso tecnico di questo termine, cioè come una mera costruzione della nostra mente), ma una disponibilità a capire il senso che la realtà mi porta. 

Senza la mia attenzione, senza la mia disponibilità a questo lavoro, è come se la realtà rimanesse muta, che è il modo con cui normalmente essa viene concepita nel nostro orizzonte culturale più condiviso. La realtà è muta, ma poi bisogna pure elaborare il suo senso, cioè il significato delle cose, altrimenti non si può vivere: e allora, di fronte a una realtà muta o ridotta a un meccanismo (fino a quel meccanismo particolare che viene evidenziato dalle neuroscienze attraverso le risonanze magnetiche funzionali, per cui a ogni nostro atto percettivo, cognitivo o volitivo corrisponde la registrazione di una motilità di alcune aree del nostro cervello) il significato sarebbe per così dire il prodotto di un’elaborazione culturale. 

A questo servirebbe la scuola: a produrre un sapere che sopperisca al mutismo dell’essere, della realtà. Tutt’altra cosa, invece, è impostare l’insegnamento e la conoscenza per scoprire che la realtà può attestare il suo significato nella misura in cui mi tocca e provoca in me delle domande (a partire dalle quali poi, naturalmente, parte tutto il lavoro inevitabile e necessario dell’elaborazione culturale). 

C’è un passaggio straordinario in un’opera di Agostino d’Ippona che sicuramente conoscerete, il De magistro (che potremmo tradurre anche come L’insegnante, inteso nel suo senso più impegnativo). Cito Agostino non scontatamente, come un’autorità universalmente conosciuta della nostra tradizione, ma per il tipo di esperienza che egli ha fatto e che ai miei occhi risulta, se così posso dire, di una vibrante modernità: qualcuno che ci precede, non perché stia alle nostre spalle, ma perché è davanti a noi e ci aspetta, come un invito da verificare. Ebbene, nel De magistro Agostino scrive una frase fulminante: «Forse che i maestri dichiarano che gli allievi devono apprendere e assimilare ciò che essi stessi, i maestri, pensano, piuttosto che le discipline che ritengono di dover trasmettere con le loro parole? E chi è così scioccamente bramoso del sapere, da mandare a scuola il proprio figlio perché apprenda ciò che pensa il maestro?». 

Insomma, i genitori mandano a scuola i figli perché essi imparino le opinioni dei professori, oppure perché riconoscano il problema che è in gioco, e cioè il senso e la verità delle cose? E come lo si impara? Vale a dire (che è l’altro lato della questione), come lo si insegna, cioè come lo si lascia imparare? Una volta che i maestri «hanno esposto con le loro parole tutte le discipline che dichiarano di insegnare», i discepoli arriveranno a considerare «in se stessi» (meglio ancora, «alla presenza di se stessi», «essendoci loro stessi in presenza»: apud semetipsos) «se ciò che è stato detto loro è vero», e lo faranno «intuendone la verità grazie alla loro interiore competenza» (interiorem scilicet illam veritatem pro viribus intuentes).

Filosoficamente Agostino risente qui indubbiamente di una concezione medioplatonica, che si riflette nella dottrina delle verità intelligibili presenti nella nostra anima, ma in questo momento ci interessa soprattutto il dato di esperienza che egli ci segnala e ci suggerisce. Agostino dice che quello che veramente gli alunni imparano è solo quello che scoprono e verificano nella loro coscienza e mediante la loro coscienza (cum vera dicta esse intus invenerint) in quanto lo sperimentano come corrispondente alla verità che è nel loro interno. In altri termini: ne fanno esperienza personale.

Quindi sembra che i discepoli assentano a ciò che dice loro il maestro (arrivando anche a lodarlo per questo), ma in realtà ciò a cui danno il loro assenso non è ciò che dice il maestro (e che loro capiscono subito dopo che il maestro l’ha detto), ma il fatto che ciò che dice il maestro ha permesso loro di venire fuori, di attivarsi. In qualche maniera quello che è stato detto loro li ha toccati e ha fatto nascere, magari in una frazione di secondo, un’attenzione, una domanda, un assenso — che è come dire alla realtà che mi raggiunge: «Cosa significhi?». Se non scatta nell’intimo del discente questa domanda, questo interesse, questa disponibilità, e quindi questo confronto tra ciò che viene dal di fuori e la verità che abita l’io, non avviene nessuna acquisizione di conoscenza. Questo carattere “interiore” della verità non vuol certo dire che noi sappiamo già a priori la soluzione dell’enigma della realtà, quanto piuttosto che l’enigma suscita tutta la nostra creatività nel domandare e nel (tentare di) riconoscere il vero.

Nel decimo libro delle Confessioni Agostino propone un’esemplificazione ancora più chiara di questo fenomeno. Il punto di partenza è la domanda posta dall’autore su dove egli possa trovare il suo Dio, vale a dire il significato ultimo di sé e del mondo, il logos. E allora egli comincia a chiedere alla terra e al mare, alle stelle e alla luna, a tutti gli esseri che ci circondano: «Siete voi? Siete voi?». E tutti gli rispondono. Ma come gli rispondono? Lui dice: «io li guardavo interrogandoli» (interrogatio mea intentio mea), «e loro mi rispondevano con la forma della loro bellezza» (et responsio eorum, species eorum).

La bellezza per Agostino non è un valore estetico, perché è l’ordine delle cose, la loro forma, il fatto che le cose hanno un ritmo, sono sensate: quindi la bellezza ha a che fare con il significato. Agostino si chiede come mai le cose sono e ci parlano con la loro bellezza, ma non tutti capiscono questa bellezza: perché — questa la sua risposta — la capiscono soltanto «coloro che sono capaci di fare domande» (possunt interrogare). Solo chi è capace di fare domande può capire che cosa la realtà gli dice. Infatti gli animali non la capiscono perché interrogare nequeunt, ossia non sanno porre questioni. Ma cosa vuol dire fare domande? Possedere una iudex ratio, «una ragione che giudica», perché fare domande vuol dire giudicare. Per noi giudicare significa normalmente risolvere la questione, avere la soluzione, mentre la logica del giudizio è proprio in questa possibilità di fare domande: che non vuol dire essere sempre sospesi, senza risposte, ma che la risposta è permanentemente qualche cosa che riapre la domanda, che devi continuamente riacquisire nel tuo percorso di conoscenza. 

Questo passo di Agostino permette di capire anche in che modo la prima parte del titolo del nostro incontro (vivere nella scuola) si leghi con la seconda (una sfida alla libertà). Agostino incalza: ma perché molte volte noi non riusciamo a percepire questa bellezza, cioè non riusciamo a esercitare la nostra ragione giudicante? Perché «gli uomini spesso hanno un amore asservito alle cose create e i servi non possono giudicare (subditi iudicare non possunt)». Cosa vuol dire che i servi non possono giudicare? Che per giudicare, per conoscere ci vuole libertà, bisogna essere liberi. Ma che tipo di libertà? È una libertà nella conoscenza, prima ancora di essere una libertà a livello morale: è una libertà intesa come un minimo di disponibilità ad accogliere l’urto delle cose, la presenza delle cose, una risposta al fatto che la realtà bussa alla porta della coscienza. I servi non sanno giudicare, non possono giudicare, perché ci vuole un minimo di distanza: non ci si può asservire alle cose. E quando ci si asserve? Quando si diventa schiavi delle cose? Quando l’amore umano diventa schiavo delle cose? Quando appunto l’io rinuncia al significato, e semplicemente utilizza le cose secondo ciò che ha nella sua testa, secondo le proiezioni della propria mente. 

Chiude Agostino: la realtà parla a tutti, ma solo alcuni riescono a capire quella bellezza. Educare a questa comprensione è il compito dell’insegnamento, e a mio modo di vedere non vale solo per quelli che insegnano e studiano filosofia, ma anche per quelli che — come diceva la nostra amica della Bottega dell’Infanzia — hanno il problema dei pannolini da cambiare, perché i bambini che hanno il pannolino (e non sto parlando della philosophy for children!) hanno una competenza di giudizio straordinaria: non dobbiamo dargliela noi, ce l’hanno strutturalmente, ed è quella che Cartesio chiamava la bona mens, il buon senso, la ragione naturale. 

Questo vale anche per chi non lo teorizza, vale come struttura del rapporto educativo. Chi ascolta la voce della realtà? «Per alcuni è muta, per altri parla, o meglio la realtà parla a tutti, ma la capiscono solo coloro che confrontano questa voce ricevuta dall’esterno con la verità nel loro interno (qui eius vocem acceptam foris intus cum veritate conferunt)», cioè quando si mette in moto l’io: è lì la scintilla del significato. 

Comunicare un significato non significa fornire un’idea bell’e pronta, ma riscoprirlo noi innanzitutto e permettere agli studenti di poter paragonare la voce ricevuta dall’esterno con la verità nel loro interno. Qui appunto si capisce come la ricerca del significato abbia come unica condizione questa libertà nel conoscere e dunque il domandare, che a volte ci sembra troppo poco, perché noi con le migliori intenzioni vorremmo dare delle risposte: e invece permettere delle domande ci sembra qualche cosa di ancora provvisorio, qualche cosa che, sì, è importante, ma solo come un primo step per arrivare poi a dare delle risposte conclusive. Ma ragionando così — parlo a me stesso innanzitutto — è come se uno dimenticasse che la risposta coincide con un luogo in cui è possibile fare delle domande, contrariamente a tutto quello che dice la cultura contemporanea, secondo cui avere una risposta vuol dire che finiscono le domande (anzi la risposta coinciderebbe con la cessazione della domanda, perché essa è stata risolta). Invece nell’esperienza si scopre che soltanto quando si intravede una risposta nella realtà, cioè quando si comincia ad accettare un dato, solo allora si comincia veramente a domandare, perché si vuol capire, si vuole andare sino in fondo. 

Quanto più emerge la realtà tanto più si intensificano le domande e questo può portare alla straordinaria conseguenza didattica per cui vale la pena studiare ancora Leopardi o studiare ancora il teorema di Pitagora. Perché studiarli ancora? Perché è come se quei contenuti ad ogni generazione aspettassero un “io”, aspettassero me. L’Odissea, Achille o Enea, o il primo principio della termodinamica aspettano me per poter “riaccadere” nella loro verità. Non è che se non li spieghiamo in classe o se un anno li saltiamo non ci sono più l’Iliade o l’Eneide nella biblioteca dell’Istituto o cessano di essere validi i principî della termodinamica: ci sono sempre, ma tutti questi contenuti in qualche modo non sono solo contenuti da imparare, bensì qualche cosa che chiede della nostra attenzione per riaccadere. Soprattutto chiede della nostra domanda per farci capire la possibile sensatezza del mondo.