Il concorso nazionale delle Scuole di specializzazione per i laureati in medicina ha occupato parte dell’interesse dei commentatori su ciò che accade in ambito universitario. In poche parole si è passati da esami locali ad un grande sistema nazionale con lo scopo (dichiarato!) di evitare che i baroni universitari (definizione sempre incerta e quanto mai qualunquista) potessero scegliere i propri specializzandi dimenticandosi del (presunto) merito. La teoria di fondo (sostenuta anche da tantissimi giovani laureati) sostiene che i docenti, spesso responsabili di Unità Operative, quando sono chiamati a selezionare, abbiano il gusto di scegliere cronicamente il più scarso tra gli aspiranti.
Il test, svoltosi a fine ottobre e al quale hanno partecipato circa 12mila medici, ha evidenziato sia enormi criticità tecniche, frutto anche del poco realismo che ha mosso la riforma, sia una palese dimenticanza, quella per cui non ci si ricorda che i medici sono innanzitutto persone e non appena tecnici del corpo umano.
Andiamo per ordine.
Il concorso nazionale prevedeva un test a crocette (multiple choice), attraverso il quale si sarebbe stilata una classifica nazionale per ogni tipologia di specializzazione (ad esempio chirurgia generale, pediatra, anestesia, eccetera) dopo la quale i vincitori avrebbero preso servizio presso la città di assegnazione (il risultato è un mix tra la propria preferenza e le preferenze degli altri: in sostanza uno studente di Bologna può vincere un posto a Palermo o a Merano, e ciò è legato al punteggio e alle preferenze degli altri). Lo scopo principale stava nel superare il vetusto esame locale col quale i docenti universitari (si dice) erano preoccupati esclusivamente di favorire i propri prescelti a discapito del merito.
Ma come si valuta e che cos’è il merito? Nell’accezione della riforma e nelle intenzioni di chi l’ha varata, il merito è inteso solo come capacità di fornire maggiori risposte esatte ad un test a quiz (domanda: ma un medico si misura solo sulle nozioni?), di fatto proponendo una metodologia malamente copiata dal tipico modus americano che soltanto nella prima fase (poi vengono espletati dei colloqui orali) di selezione dei propri specializzandi opera attraverso prove a quiz per verificare la capacità acquisitiva di nozioni e conoscenze.
Questa scelta che scopiazza male il sistema americano dimentica che il merito va misurato sempre in relazione alla tipologia di lavoro per il quale vuole essere misurato (in ospedale forse non ha merito il rapporto coi pazienti, la capacità di instaurare legami buoni di lavoro con i primario, la disponibilità ad avere una socialità e un rapporto di fiducia con i colleghi per le urgenze che emergono?): d’altronde l’ospedale è un ambiente particolare e come ogni ambiente lavorativo ha le proprie regole di vita.
Il secondo motivo che ha dato vita al concorso nazionale è correlato al nuovo desiderio espresso dall’opinione pubblica (spesso per ragioni di contrapposizione al presunto malaffare che ha circondato parte della vita politica italiana), di garantire la trasparenza nelle assunzioni: ovvero, lo Stato, non fidandosi dei suoi dipendenti, in tal caso i docenti universitari, avoca a sé la scelta, promettendo di garantire massima trasparenza nel concorso.
Lo scopo (seppur giusto nelle intenzioni) è stato fallito; se nel caso del merito è una finta americanizzazione ad averla fatta da padrone, nel caso della trasparenza è l’impostazione tipica di una concezione negativa dell’uomo (non ci si fida delle scelte umane) ad aver mostrato la propria debolezza. Questa seconda impostazione infatti ritiene lo Stato l’unico soggetto neutrale ed in grado di assicurare quella trasparenza richiesta e mai raggiunta: ma come si può considerare neutro uno Stato che è fatto di persone? Le persone, di cui si serve lo Stato per garantire la trasparenza, non sono persone simili (a volte proprio le stesse!) a quei docenti universitari considerati invece inaffidabili?
Ma perché non si è raggiunto lo scopo:? Il motivo principale risiede in una elementare riflessione che i decisori politici non hanno compiuto. Nel momento in cui si decide che il concorso debba produrre una classifica nazionale, si deve appurare che in ogni parte d’Italia vengano garantite le stesse condizioni: ad esempio, uno spazio adeguato tra un concorrente e l’altro (e come abbiamo visto c’erano aule con i computer abbracciati l’un l’altro e altre con gli aspiranti a distanze siderali) e un sistema di sorveglianza uguale (e abbiamo visto che in alcune sedi universitarie la pratica della sbirciatina è stata il file rouge della giornata). Ma come si è potuto dimenticare che “garantire la stessa identica situazione nelle oltre 500 aule” sarebbe stato impossibile? Elementare riflessione riterrebbe che più si dislocano le sedi più è difficile l’uniformità, quando essa viene intesa in senso puramente amministrativo.
Così, entrambe le previsioni sono state disattese: sia il merito sia la trasparenza, e ciò ha comportato un esito alquanto bizzarro.
Primo: la non uguaglianza di condizioni ha “inficiato” la regolare classifica finale, lasciando fuori ragazzi meritevoli e facendo arrivare, in taluni casi, per primi, non i migliori medici, ma i migliori amanuensi (che magari saranno anche bravissimi medici, magari!). Secondo: la classifica nazionale non ci ha assicurato che i vincitori (tutti coloro che sono stati assegnati ad una specializzazione) siano bravi medici, perché la classifica non ha alcuna misura minima, ma soltanto una classificazione ordinale. Quindi, si può non essere pediatri facendo bene quasi tutte le risposte, ma si può diventare dermatologi indovinando la metà delle domande (che la pelle valga forse meno dell’ombelico era l’obiettivo del decisore politico?).
Questo ha generato cambi improvvisi di rotta in tanti partecipanti che pur di non rimanere a piedi (e d’altronde come dar torto in questo periodo?!) hanno preferito specializzazioni “vicine a casa”, di fatto annullando tutto il valore di conoscenza maturato negli anni attraverso la frequenza in reparto, la tesi di laurea e la partecipazione a progetti di ricerca in un particolare settore della medicina.
Su questo punto infatti, se proprio si vuole un sistema nazionale, è necessario creare un sistema con una soglia e non con una classifica: lo Stato dovrebbe accertarsi di garantire l’idoneità dei vincitori, considerando idoneo colui che risponde in maniera adeguata ad un certo numero di domande (la soglia appunto), in modo che, non potendo garantire l’uniformità delle condizioni, si eviti almeno che uno studente di Palermo resti escluso perché in un altro punto d’Italia si sia facilmente passati al sistema della copiatura. Infatti, essendo una soglia, ciascuno “fa la gara solo con se stesso”. L’idoneità che adesso si conferisce per l’esercizio della professione medica, ossia l’esame di Stato, può esserne un esempio.
Inoltre, ed è l’aspetto che maggiormente colpisce quando si prendono determinate decisioni, è la non comprensione delle normali dinamiche dell’uomo da parte del legislatore nazionale. Il concorso nazionale infatti, presenta due lacune enormi sotto questo aspetto. La grande pecca di un test simile sta nella sua concezione. Pretendere che ragazzi, presumibilmente di un’età compresa tra i 25 e i 30 anni, debbano prendere armi e bagagli e spostarsi a oltre 1000 km dal luogo normale di vita, rappresenta il modo peggior per iniziare un normale rapporto di lavoro, tra datore di lavoro (lo Stato) e lavoratore (lo specializzando). L’uomo vive di relazioni umane, di un suo mondo vitale e se estirpato (in maniera non volontaria si intende) da quel mondo, fatica non poco ad essere “produttivo e bravo”, anche e soprattutto in senso medico. Uno studente di Bologna che dovesse vincere a Palermo (o viceversa!), come affronterebbe tutto il lavoro, la settimana, lo stress, se poi (sarebbe ipotizzabile) vivesse attendendo soltanto di poter ritornare dove ha i legami cari (a quell’età è presumibile che molti abbiano una famiglia propria, una rete di relazioni stabili e ormai alquanto definite)? Questo aggraverebbe i costi, ridurrebbe l’efficienza e, anziché esser stimolato, il vincitore sarebbe gravato di altre difficoltà.
Inoltre, sempre in merito a questo, come si fa a non comprendere che un laureato che è stato 6 anni in una clinica universitaria, con quel determinato primario, porta con sè uno stock di conoscenza che va salvaguardato? Inserire nel team un altro (preso a caso dalla classifica) significa ripartire spesso da zero. Il lavoro in ospedale non è solo tecnico, è anche e soprattutto (come qualsiasi lavoro di squadra) un lavoro di relazione tra colleghi. Proprio a ragione di ciò, lo Stato dovrebbe solo dirci se quel ragazzo è idoneo a svolgere la professione, non se è idoneo a svolgerla in una determinata città.
Per la valutazione locale, è necessario chiedere a chi in quel locale ci lavora, ossia i docenti universitari responsabili di quella scuola di specializzazione. L’università infatti è tale perché esiste un rapporto di educazione, di trasmissione del sapere che avviene dentro la relazione tra maestro ed allievo, relazione che non può essere spezzata solo in ragione del fatto che qualche barone possa approfittare della propria posizione per “far entrare il presunto pupillo”. La relazione maestro-allievo va salvaguardata aprioristicamente, altrimenti si nega il principio fondativo dell’università e della conoscenza.
In conclusione, lo Stato si preoccupi di garantire soltanto che uno specializzando abbia i requisiti minimi (appunto l’idoneità nazionale) e poi lasci ai direttori delle scuole di specialità la facoltà di scegliere gli specializzandi, all’interno dell’elenco degli idonei, magari attraverso un colloquio e/o prove pratiche che determinino l’attitudine e le abilità per quella determinata specializzazione. Così ogni ragazzo può decidere liberamente il posto in cui andare a concorrere e ogni ospedale (finalmente) assumersi la responsabilità delle proprie scelte (senza mascherarle dietro farraginosi meccanismi selettivi). Compito dello Stato infatti è far si che ci siano buoni medici, motivati e sostenuti nel loro alveo di vita. Quand’anche uno di questi fosse il prediletto di un barone, non è importante, l’importante è che anch’esso abbia un’idoneità riconosciuta e venga misurato sul campo, come tutti gli altri.