Ieri la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha condannato l’Italia per la sua normativa sui contratti di lavoro a tempo determinato nel settore della scuola. 

La prassi su cui si è finora retta l’amministrazione scolastica italiana di assumere ogni anno migliaia di docenti precari il 1° settembre per poi licenziarli il 30 giugno, è contraria alla normativa europea e in particolare alla direttiva del Consiglio Europeo del 28 giugno 1999, n. 70 (1999/70/CE) clausola n. 5 che prevede, per tutti i Paesi membri, la non reiterabilità dei contratti di lavoro a tempo determinato per più di tre anni di seguito.



La sentenza era da tempo attesa, come rilevato fin da settembre su questo giornale, così come il suo esito finale, in gran parte preannunciato e quasi scontato.

Com’è noto, la normativa italiana prevede un sistema per la sostituzione del personale docente e amministrativo nelle scuole statali per cui si provvede alla copertura dei posti effettivamente vacanti e disponibili, attingendo dalle famigerate graduatorie, mediante supplenze annuali «in attesa dell’espletamento delle procedure concorsuali». Tempistiche quanto mai incerte, visto che il concorso precedente rispetto a quello bandito dal ministro Profumo del 2012 risale al 1999. Ecco quindi la perpetuazione di quel sistema caratterizzato, per usare le parole del premier Matteo Renzi, dalla “supplentite”.



La direttiva europea, al fine di prevenire l’utilizzo abusivo di una successione di contratti a tempo determinato, impone agli Stati membri di prevedere almeno una delle seguenti misure: a) l’indicazione delle ragioni obiettive che giustifichino il rinnovo dei contratti; b)ovvero la determinazione della durata massima totale dei contratti; c) o del numero dei loro rinnovi.

Per quanto riguarda gli ultimi due requisiti, nel caso italiano, la durata temporale rimaneva “variabile e incerta” vista la scadenza alquanto sporadica e aleatoria delle tornate concorsuali, così come non vi era alcun limite quantitativo nel numero di rinnovi.



La «ragione obiettiva» giustificatrice di tale prassi era stata individuata nella difesa dell’Avvocatura dello Stato in una «particolare esigenza di flessibilità». Ma, rileva la Corte al punto 104 della sentenza, «contrariamente a quanto sostiene il governo italiano», il solo fatto che la normativa nazionale, che consente proprio il rinnovo di contratti di lavoro a tempo determinato per la copertura, tramite supplenze annuali, di posti vacanti e disponibili in attesa dell’espletamento delle procedure concorsuali, «possa essere giustificato da una “ragione obiettiva” non è sufficiente a renderla conforme» all’accordo quadro, se risulta che l’applicazione concreta di detta normativa conduce, de facto, a un ricorso abusivo a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato. Ciò si verifica quando tali contratti sono utilizzati per soddisfare esigenze permanenti e durevoli delle scuole statali in materia di personale, proprio come nel caso italiano. Per questi motivi la Corte ha dichiarato la nostra normativa italiana (e conseguentemente il sistema di “gestione” del personale docente della scuola) in contrasto con le normative europee, obbligando l’Italia a rivedere il suo ordinamento, conformandosi a quanto sopra brevemente richiamato.

Ma al di là degli aspetti tecnici su cui sarà opportuno tornare nei prossimi giorni per un approfondimento, appaiono significative le parole con cui il ministro Giannini ha commentato la sentenza, quando ha affermato che i contenuti e i metodi del piano “La Buona Scuola” del governo Renzi siano «perfettamente in linea, ma anche anticipatori rispetto a quello che ha indicato la Corte Europea». E ancora il ministro ha riconosciuto che la decisione su questo tema “noto” era “attesa” da tempo e “dalla cui consapevolezza siamo partiti” nel lavoro al Miur.

Senza troppe congetture, è quindi evidente che l’intero piano “La Buona Scuola” sia stato costruito proprio attorno e in vista di questo provvedimento tanto “atteso” e dalle conseguenze dirompenti. Bene quindi che questa sentenza non abbia colto “di sorpresa” il governo (ci mancherebbe!), così come è da salutare positivamente la prospettiva di porre fine (ma sarà davvero così?) al precariato della scuola, ma ciò non vuol dire affatto che il governo Renzi sia stato tempestivo. Anzi, ha fatto buon viso a cattivo gioco. Ora affermare che il Miur e il Governo siano stati “anticipatori” nell’applicare una direttiva europea del 1999 (15 anni fa!) appare francamente grottesco…

Forse qualcuno degli strateghi comunicativi del premier fiorentino avrà pensato: la Corte di Giustizia Europea a breve ci condanna? E noi allora “facimm’ammuina”: prepariamo un bel dossierino di decine e decine di pagine, colorato, con una grafica moderna e accattivante, e lo diamo “in pasto” per una consultazione generale di ascolto del mondo della scuola. Il tutto condito con una campagna mediatica “social” a base di tweets e “like”. Quando in realtà, tolto il contenuto e le conseguenze di questa sentenza, della “buona scuola” rischia di rimanere davvero poco, esattamente come certe slides luccicanti e colorate che hanno inaugurato il governo Renzi e di cui oggi si sono perse le tracce. Questo spiega anche alcune gravi mancanze del documento governativo (su tutte l’assenza della scuola paritaria e del sistema di istruzione e formazione professionale), così come una mancanza di visione d’insieme (senza considerare che le risorse economiche sono in gran parte concentrate su questa maxi-assunzione-sanatoria, con qualche briciola sul resto e addirittura tagli per alcuni aspetti legati al tema dell’autonomia scolastica).

Il fatto è che non si governa né con le slides, né con i tweet, ma con freddi documenti scritti in bianco e nero. E sono questi gli strumenti che la politica ha a disposizione per modificare l’ordinamento giuridico. Tutto il resto rischia di essere un facite ammuina che tiene impegnati (o distratti?) per un po’, ma che non aiuta a procedere con efficacia e trasparenza.